Un’altra solitudine

VINCI
Il mio Corto per il Corriere della Sera esce sabato 13 settembre in allegato a Io Donna. Per ragioni di spazio ho dovuto tagliarne qualche pagina..la posterò qui, più avanti.

La quarta di copertina: «È un tardo pomeriggio d’inverno, Natale si avvicina, le strade della città sono illuminate a festa, tutti hanno fretta, e tutti corrono, le braccia cariche di pacchi e pacchetti con i regali. Anch’io corro come gli altri, e come gli altri ho fretta di tornare a casa. Sotto i portici, in via dei Mille, quasi all’incrocio con via Indipendenza, c’è una ragazza seduta sui gradini di una banca. È sola. Sta scrivendo qualcosa su un pezzo di cartone, e piange. Piange disperatamente. Le lacrime scivolano sul suo volto rotondo da bambina. Ma nessuno si ferma.» Che cos’è la solitudine? Il buio prima della luce, il momento in cui fermarsi per riflettere e ricominciare, in una nuova prospettiva, la propria vita? Oppure è solo l’orlo dell’abisso? Simona Vinci racconta i molteplici volti della solitudine, in un viaggio affascinante alla ricerca di cosa significhi veramente, al giorno d’oggi, essere soli.

L’incipit: "C’era una volta un uomo che in un giorno d’estate, quando il sole, nella parte di mondo in cui abitava non conosceva alba né tramonto ma stava sempre alto nel cielo come una lampadina accesa, aveva riempito una sacca di viveri e oggetti di prima necessità, li aveva caricati sulla sua slitta ed era partito verso l’orizzonte invisibile. La moglie e i tre figli lo avevano guardato senza dire una parola. Sapevano benissimo di averlo perduto nel momento stesso in cui l’idea di partire da solo era balenata nella sua mente. Ora era già troppo tardi, non c’era più niente da fare: quando un uomo incomincia ad essere solo dentro la sua testa non si può più convincerlo a tornare indietro. Lo guardarono avanzare nella luce bianca che prometteva neve e ancora neve, i suoi passi non lasciavano orme visibili sul ghiaccio bianco lucido del fiordo, e loro sapevano di star guardando un fantasma, una visione del passato, l’eco di qualcosa che non sarebbe mai più stato reale. Quell’uomo era diventato un kivitog."

PS Ovviamente, la quarta non me la sono scritta da sola…e neanche mi sono disegnata quelle guanciotte rubizze.



Libri

"I libri avevano un ruolo sproporzionato nella mia vita e mi aiutavano a costruire un’unità di misura interiore…"

Reinhard Jirgl

Un tempo, era così anche per me. Adesso non lo so più. Certe volte, le pagine stampate mi sembrano più fredde della morte. Il mondo chiede di essere toccato, prima che letto.


Il dolore degli altri- Tbilisi, Georgia

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Grembiuli da casa, pantofole di pezza, foulards legati sulla testa, un bastone posato accanto, espressioni attonite o disperate. Le mani di queste due anziane sedute sulla soglia di una casa, a Tbilisi. Mani grandi, segnate dal lavoro, dall’artrite e dalla vecchiaia. Mani che hanno lavorato tutta la vita, mai ferme, sempre a fare, cucire, cucinare, pulire, tirar fuori patate dai campi e bambini dalle pance, mani più da schiaffi che da carezze si direbbe a vederle così, ma chissà poi che dolcezza, invece. Mani che adesso, di fronte alla sciagura, non sanno più che cosa fare e restano lì, ingombranti che non si sa dove metterle, impossibili da nascondere, goffe a stringere un gomito, a tormentare il viso, a chiudere forte la bocca per non mettersi a urlare, di dolore o di rabbia.

ansa136000641008205819_bigCosa c’è in queste immagini (dalla galleria fotografica Georgia, la tragedia degli sfollati, Repubblica) che mi urta tanto? Che urtica, scortica, fa male? Oltre le ovvie pena ed empatia nei confronti di queste persone: anziani, donne e bambini trascinati fuori dalle loro case, fuori dalle loro vite. Dietro questa prima pelle, ce n’è un’altra e poi un’altra ancora. Strati di motivazioni, di emozioni, di domande che prudono come scabbia. Ad esempio: a cosa servono queste foto? (A cosa servono tutte le fotografie di guerra)? A dire ancora una volta che la guerra, qualsiasi guerra è brutta? A farci sentire buoni, capaci di pietas? Servono a fomentare l’odio per un nemico? A nutrire il nostro voyeurismo? Sfoglio quel saggio spiazzante di Susan Sontag che continuo a rileggere e nel quale non trovo nessuna risposta, solo altre domande. Chi sono i noi a cui queste immagini scioccanti sono indirizzate? Quel noi dovrebbe includere non soltanto i simpatizzanti di una piccola nazione o di un popolo privo di Stato che lotta per la propria vita, ma anche il gruppo ben più nutrito di chi si preoccupa, non foss’altro che a parole, di una qualche terribile guerra in corso in un altro paese. Le fotografie sono un mezzo per rendere "reali" ( o più reali) situazioni che i privilegiati, o quanti semplicemente non corrono alcun pericolo, preferirebbero forse ignorare.

Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri                 

E poi penso ai reporters, alla faccia tosta – Coraggio? Fede nell’utilità proprio lavoro?- che ci vuole a scendere per le strade di una città messa a ferro e fuoco e puntare l’obiettivo sui volti, sulla disperazione altrui, per portare a casa un servizio.

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PS. Queste tre fotografie sono tratte dalla galleria di Repubblica e non sono firmate, è indicata solo l’agenzia: Ansa per le prime due, Reuters per la terza.

PS2 Dietro l’Ossezia, lo scontro tra USA e Russia, di Carlo Benedetti, qui.


Dentro una storia

talamoneErano in due. Due uomini di mezza età che camminavano in salita contro la luce rosa e rossa del tramonto. Là in fondo, oltre la salita, c’era il mare. E anche se da lì non si vedeva, si sentiva che c’era. Uno dei due si appoggiava a un bastone. Camminavano tenendosi a braccetto, come una coppia, ma si capiva che erano fratelli -anche se uno era più basso e più curvo- si capiva dalla forma delle spalle. Andavano piano, un piccolo passo dopo l’altro e parlavano a bassa voce, sorridendo. Ti ricordi? diceva uno all’altro. E il tempo andava avanti e indietro tra le loro bocche.

Lei era da sola. Una signora anziana, con un cappellino bianco e un costume da bagno intero che le scivolava su una spalla e lasciava scoperto un piccolo seno bianco da ragazza. Stava seduta su una roccia in riva al mare e raccoglieva sassi e conchiglie dentro una busta di plastica. Il marito era in piedi sotto il sole a qualche metro di distanza, l’ombrellone in mano, la borsa con gli asciugamani a tracolla. Paziente, la aspettava. Lei ha detto, su questa spiaggia ci ho passato l’infanzia. Ero piccola quando mi hanno portata lì. E ha indicato un punto nascosto da qualche parte dietro la pineta. , era un orfanatrofio estivo. Una colonia per bambini poveri e soli, in riva al mare. Adesso è un albergo. Anche adesso che vivo lontano, che da tanto tempo mi sono sposata e vivo in un’altra città, al nord, torno qui tutte le estati. A casa, ho una parete tutta mia e non permetto a nessuno di toccarla. C’è uno scaffale con bicchieri pieni di sassi e di conchiglie, ci sono le sculture di legno buttate a riva dalle onde, c’è anche una rete da pesca. Quella parete, è il mio mare.

Loro erano in quattro. Una mamma e i suoi tre bambini. Uno piccolissimo su un passeggino e gli altri due aggrappati al manubrio, uno da una parte e uno dall’altra. E la sorellina ha chiesto al fratellino: ma il mare poi finisce? E lui ha risposto no che non finisce, l’acqua non finisce mai. E la mamma si è passata un avambraccio sulla fronte per asciugare il sudore, ha sistemato il bavaglino al più piccolo e ha ricominciato con la storia dei ghiacciai e della pioggia e insomma alla fine ha concluso, tranquilli, no che non finisce. E a quel punto erano arrivati in cima alla scogliera e i bambini hanno spalancato la bocca da quanto era immenso l’orizzonte e quanta acqua c’era.

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E tutti quanti, un giorno, forse si ritroveranno dentro una storia. Un racconto, un romanzo. Chi lo sa.


Confusioni a Bologna, Italia*

Prima di andare, ancora una cosa: pochi giorni fa ero a cena con degli amici e la conversazione a un certo punto si è infiammata sul tema della sicurezza nelle nostre città. O dell’insicurezza percepita, quella pompata dai media, cavalcata con foga dai politici, e che sempre più spesso fa venir voglia di sparare –metaforicamente– sullo straniero. Le posizioni, e le analisi, erano diverse, anche se convergevano sul fatto che spesso più che emergenza reale si tratta di paura. Però, a questo proposito, mi è tornato in mente un pezzo scritto poco tempo fa sul suo blog da una persona che stimo e della quale credo di conoscere l’onestà intellettuale. Si chiama Massimiliano e di mestiere fa l’assistente sociale (adesso si dice operatore). Il pezzo, Confusioni a Bologna, è questo. E le sue perplessità, le sue domande confuse (così lui stesso le definisce) sono anche le mie.

Altre cose interessanti sul tema, scritte anche da quelli che stanno dall’altra parte della strada, si possono trovare, spesso tra le righe, sul blog Asfalto in diretta dal laboratorio informatico del Centro Diurno di Bologna.