L’ huzun di Istanbul

tristezza- istanbulIn un han del Gran Bazar di Istanbul, qualche giorno fa, un uomo solo beve il suo cay. Ha un’espressione triste, le spalle incurvate, le mani screpolate dal freddo e chissà, forse dalla fatica. Lo guardo e penso alle parole di Orhan Pamuk sulla tristezza di questa città e dei suoi abitanti. L’immagine è sfocata perché non volevo che mi vedesse e l’ho fatta in fretta, la digitale nascosta nel palmo della mano.

"Istanbul, che si trova al 41 parallelo, non somiglia affatto alle città tropicali dal punto di vista climatico, geografico o della povertà sociale, ma per la fragilità delle sue esistenze, per la sua lontananza dai centri occidentali, per il "mistero" delle sue relazioni umane…e per il senso di tristezza, che ricorda ciò che Lévi-Strauss chiama tristesse. Per definire non il dolore che affligge il singolo, ma una cultura, un ambiente in cui vivono milioni di persone e un sentimento, il termine huzun* è molto adatto, come tristesse."

Orhan Pamuk, Istanbul pag. 97

* Huzun, parola turca di origine araba: tristezza, afflizione.


Cosa ti serve?

(…)

Sulla nave, Teresa era rimasta immobile nell’angolo che le avevano assegnato. Quando la terra era scomparsa dietro di loro, e l’ombra verdeazzurro dell’isola che stavano lasciando si era lasciata inghiottire dal mare, lei aveva buttato in acqua tutto il suo passato. Un sasso poroso, che prima di affondare aveva ondeggiato nell’acqua, indeciso. Non ne aveva più bisogno. E le cose che non ti servono, non fanno altro che ostacolarti. Nel posto dove andava, anche se non sapeva di preciso cosa o come fosse, le sarebbero servite solo gambe e braccia, spina dorsale e polpastrelli, unghie, pupille e lingua. Di tutto quello che non poteva essere utilizzato per sopravvivere era meglio sbarazzarsi. Era un animale selvatico, allenato a resistere alle intemperie, e lo spazio cavo dentro la sua gabbia toracica, che alcuni dicono dovrebbe contenere i sentimenti, era attrezzato per racchiudere esclusivamente polmoni e cuore. Neanche i sogni, dentro di lei, avevano mai trovato un terreno adeguato alla loro proliferazione, abortiti al primo apparire e subito ricacciati indietro, nel buio. Per questo, mentre gli altri passeggeri schiumavano rabbia e dolore e vomitavano ricordi e urla in ogni angolo dell’imbarcazione, Teresa si era raggomitolata stringendosi le ginocchia al petto, aveva chiuso gli occhi e si era addormentata.

Una delle guardie, mentre dormiva, le aveva rifilato un calcio nelle costole per costringerla a spostarsi, farsi più piccola ancora, e lei non si era lamentata, si era limitata a stringersi contro la parete. Da bambina, aveva sempre immaginato se stessa come un piccolo riccio: pancia tenera, aculei per difendersi e quella misteriosa e bellissima magia che sapeva fare anche lei di avvoltolarsi su se stessa e nascondere i punti vitali dentro un’armatura impenetrabile. (…)