Han visto il lupo

“Han visto il Lupo, l’hanno visto sparare
l’hanno visto sul fiume con due parole
han visto la Volpe, l’hanno vista sparire
l’hanno vista nell’ombra col suo fucile”.

Claudio Lolli, Poco di buono 

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Niente, non ce l’ho fatta a resistere, sono dovuta andarci e farmele, le strade con in posti di blocco dei carabinieri a ogni incrocio e guardare, ancora una volta, le campagne distese tra Molinella, Marmorta, Campotto, San Antonio, Medicina, Fiorentina; neanche un cane per strada, o un gatto in un campo, solo i posti di blocco coi carabinieri a coppie e il mitra in mano che ti fermano e guardano dentro il bagagliaio, metti che il fuggitivo ci si sia nascosto dentro. Gli agricoltori intanto si facevano gli affari loro ché i campi non aspettano mica che ti torni la voglia. Tra i casolari abbandonati, i canali, gli argini, i fossi, le boscaglie, i canneti: un mondo immobile bagnato dalla luce delle quattordici e trenta che sembrava già estate, quell’estate di pianura che non fa sconti a nessuno, paradiso di uccelli e insetti, innocenti e ignari, fino a prova contraria.

Sono passate più di due settimane dall’omicidio di Davide Fabbri al bar della Riccardina di Budrio e una dall’uccisione della guardia forestale volontaria Valerio Verri in zona Portomaggiore da parte di un fuorilegge considerato altamente pericoloso, ormai noto in tutta Italia come Igor il Russo, anche se il suo nome probabilmente non è Igor, e quasi certamente non è russo.

Quando la scrittrice bolognese Renata Viganò scrive “L’Agnese va a morire”, uno dei capolavori della letteratura neorealista italiana, pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1949, i ricordi della sua militanza partigiana nelle valli del comacchiese, insieme al marito, anche lui scrittore – Antonio Meluschi detto “il Dottore” – sono ancora freschissimi. Il terribile inverno del ’44-45, e la sua durissima primavera sono appena passati quando incomincia a scrivere quello che sarà il suo libro più famoso, tradotto in moltissime lingue e portato al cinema nel 1976 da Giuliano Montaldo. Renata Viganò dunque quelle valli e quei luoghi li conosceva molto bene. Dapprima sfollata – prima Viserbella, poi Imola, Campotto e Filo – dalla città di Bologna insieme al marito e al figlioletto Agostino e presto coinvolta in prima persona – essendo infermiera ebbe l’incarico di organizzare degli ‘ospedaletti’ clandestini per i civili feriti di guerra – nella lotta contro il nemico straniero e la Brigata Nera Italiana. L’Italia era divisa in due dalla Linea Gotica: gli alleati che risalivano da sud e i tedeschi che scendevano da nord e nel 1943, al loro arrivo avevano pensato che il delta del Po fosse il posto perfetto per realizzare una parte della linea difensiva Bologna – Comacchio, la cosiddetta Linea Gengis Khan. Ponti distrutti, muri antisbarco, postazioni fortificate avrebbero fatto il resto, ma i conti li avevano fatti senza gli osti: gli americani, che poi sbarcarono da tutt’altra parte, ad Anzio, e i partigiani che costruirono una rete capillare di resistenza coinvolgendo sempre più la popolazione locale.

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Il delta del Po è calcolato in settecentottantasei chilometri quadrati e settantacinque, ora ridotti a quaranta, sono invece quelli che circoscrivono il territorio della caccia all’uomo in questi giorni. Sembrano pochi, quaranta chilometri quadrati, ma è difficile far capire a chi non li abbia mai frequentati, cosa siamo di preciso quei chilometri di zona umida e valliva incastrati tra tre province: Bologna, Ferrara e Ravenna. Luoghi perfetti per nascondersi e farsi fantasmi, luoghi che solo gli oriundi conoscono davvero e nei quali sono capaci di sopravvivere e di muoversi, spostarsi, fuggire, scomparire per poi riapparire un poco più là. Le tracce cancellata dall’acqua che sale e scende. Un terreno perfetto sul quale giocare una strategia complicata, un “deserto senza strade, dove la canna alta e il sentiero stretto danno respiro agli agguati”. Nel 44-45 in quelle valli, oltre ai partigiani, si nascondevano anche ricercati delle S.S. e delle brigate nere. Come scrisse poi Meluschi stesso “Le valli erano il sicuro rifugio dei ricercati delle S.S. e delle brigate nere, la gente s’annidava nei freddi e umidi “casoni” delle guardie vallive, nelle chiuse d’acqua, e imparava a pescare le anguille, a vivere soltanto di esse, che qui, molte volte, prendono il posto del pane. Vita dura, disancorata dalla civiltà. Erano compagnie scarsamente armate, al principio scalze, denutrite: era gente d’ogni paese, provincia, regione; e si raccolsero prigionieri russi, cecoslovacchi, inglesi, americani, canadesi, disertori austriaci, tedeschi (…)”

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È in questo mondo, che così raccontato sembra quasi l’ambientazione di una fiaba nera, un luogo immaginario e fantasmatico e invece è qui, a due passi da casa, che si sta tessendo da due settimane la narrazione del cosidetto Killer di Budrio. In questi luoghi desolati all’apparenza, eppure ancora abitati e vissuti non soltanto dagli uccelli palustri e dalle api, ma da persone in carne e ossa che qui hanno le loro attività e le loro case e che ora vivono nella paura. Questi luoghi che se ci passi in macchina per farti un giro, in qualsiasi stagione, ti sembrano sospesi nel tempo così come sono a metà tra terra e acqua, orizzonte aperto e fitta boscaglia, canneti, strette vie d’acqua navigabili con piccole barche, canali morti, strade che finiscono su dune di sabbia e basta un passo per rendersi invisibili. La Viganò faceva dire al Comandante “E’ un luogo magnifico …Le canne non fanno verde, non fanno ombra, ma nascondono. Basta stare fermi ad un metro di distanza, e di qui non passa nessuno.

Acqua torbida, zanzare, uccelli palustri, nebbia, ghiaccio, afa a seconda della stagione. E’, questa, anche la terra in nacque intorno al 1700 la leggenda della Borda (o Bùrda, nel ferrarese, o ancora, francesizzato, Bourda) una creatura mostruosa, mezza umana e mezza strega, col volto mostruoso coperto da una maschera di cartapesta, una creatura malefica che vive nell’acqua dei canali, dei pozzi, degli acquitrini e che appare solo con il buio o nelle giornate di nebbia. ( Obbligatoria la lettura di “Mal’aria” di Eraldo Baldini, lo trovate ne “La trilogia del Novecento” pubblicata da Einaudi). La Borda attrae a sé le sue vittime, preferibilmente bambine e bambini, non per cibarsene, come si potrebbe immaginare, ma per pura, maligna, distillata cattiveria, le immobilizza con una corda o un laccio di cuoio, le strangola e poi le affonda nelle acque melmose che sono la sua dimora. Difficile immaginare un luogo più suggestivo di questo per ambientarci una caccia all’uomo senza quartiere. Non a caso io, che sono di Budrio, più volte ho scelto quegli scenari per alcuni dei miei romanzi, dalla parte finale del romanzo “Come prima delle madri”, ambientato nel 1943 nelle valli di Argenta, a “Strada Provinciale Tre”, in cui la foce del delta del Po è una delle ambientazioni in cui si muovono la protagonista del romanzo e il giovane Dimà. Questa caccia all’uomo mi ha fatto ripensare alla prima stagione di una delle serie tv più belle degli ultimi anni, True Detective, ideata e scritta dal romanziere americano Nic Pizzolatto: è ambientata in Louisiana, tra canneti e valli molti simili a quelle di questa zona d’Italia. Due investigatori, Rust Cohle e Marty Hart, per diciassette anni danno la caccia a un misterioso, spaventoso serial killer che in quelle valli si nasconde, chissà dove, o forse vive alla luce del sole, ma nessuno immagina dove, di preciso, in quella giungla d’erba e acqua putrida. La bellezza sfolgorante di quelle prime otto puntate stava non soltanto nelle interpetazioni eccezionali degli attori, nei dialoghi filosofici e nella vicenda mozzafiato, ma proprio nella capacità di far assumere ai luoghi un ruolo da assoluti protagonisti, al pari degli attori. Qualcosa che con i nostri posti di pianura tra terra e acqua che si spingono su, verso nord-est e verso il delta del Po, sono riusciti a fare nel passato alcuni tra i più grandi registi italiani: Luchino Visconti con Ossessione, Michelangelo Antonioni con Il grido, Roberto Rossellini con l’ultimo episodio di Paisà, che racconta proprio la lotta partigiana nel Delta, e il Mulino del Po di Alberto Lattuada tratto dal romanzo di Riccardo Bacchelli, sulla cui scena finale scorre la frase “Così passa e ritorna il bene ed il male degli uomini e il tempo è simile all’andare del fiume.”

“La Belva Igor”, qualunque sia il suo vero nome e la sua vera storia e qualunque sarà il suo destino, nel giro di due settimane è entrato nella leggenda emiliano-romagnola: tutti quelli che sono oggi bambini, da adulti probabilmente ricorderanno questa vicenda che ha ormai assunto caratteri mitologici ed orrorifici; tornerà forse a visitarli negli incubi questa creatura mezza Rambo, mezza Borda, che striscia sul fango, resiste sott’acqua respirando con una cannuccia, si nutre di galline rubate, gatti e amare radici, carote e zucchine, uova, tutto quello che trova, ha il dono dell’obiquità (molti lo hanno avvistato) ma anche quello dell’invisibilità (nessuno riesce ad acchiapparlo). In quasi mille tra le varie forze dell’ordine impiegate, carabinieri, polizia, paracadutisti, oltre all’elicottero con gli infrarossi, i droni, i cani molecolari e ora, pare, perfino un sensitivo. Una creatura tra l’umano e l’indicibile, una sorta di oscura, feroce divinità che gli umani tentano di placare con offerte di cibo, come si fa con i morti, per tenerlo lontano dalle proprie case. Una narrazione al passo con i tempi, ma con un’aura antica, quasi atemporale, (il Male incarnato esiste in tutti i tempi, purtroppo) che per due settimane (ora tre) ha tenuto con il fiato sospeso, oltre che gli abitanti della bassa, anche quelli di mezza Italia, che forse non sanno niente di questi posti, oppure non se lo ricordano e non fanno collegamenti. Sembra davvero che i luoghi, per la loro conformazione geografica, ma anche per qualcosa di difficilmente spiegabile e assimilabile a una specie di atavica maledizione, attraggano certe storie, forse le generano, ma di sicuro lo sono essi stessi, storie. Quando questa vincenda sarà finita, con la cattura del fuggitivo, con la sua morte o con la sua definitiva sparizione, non potremo più prescindere da questa imperfetta, ma appassionante narrazione che i quotidiani, le testate on-line e i telegiornali hanno alimentato imbeccandola ogni giorno di qualche dettaglio nuovo, fino a farci quasi dimenticare le vittime, perché il cattivo, la Bestia, è molto più appassionante delle piccole vite di gente perbene che ha avuto la sventura di incrociarne il cammino. E quindi Igor il Russo continuerà ad abitare questi luoghi insieme al Comandante e a mamma Agnese, ai partigiani, ai fantasmi dei fuggitivi e dei giustiziati, delle uccise e degli uccisi, sfilze di nomi sulle lapidi a ricordo e nelle liste dei caduti – due donne in bicicletta freddate da tre uomini sconosciuti armati di mitra lungo la strada che porta al bosco del Traversante, il diciannovenne partigiano Alfonso Alberoni che fu mitragliato dai tedeschi il 16 aprile del 1945 proprio nelle valli di Campotto, Argenta, a soli due giorni dalla liberazione di quel territorio e la cui stele o cippo alla memoria sta nel punto preciso di via Cardinala in cui Cadde colpito a morte da piombo tedesco – tedeschi, fascisti e partigiani, gente giustiziata per calcolo, per vendetta, ma anche per errore, da ambo le parti. Tra tutti, a me piace chiudere immaginando due personaggi positivi in assoluto, che in tempi non lontani vagabondarono a piedi, in macchina, in treno e in corriera su e giù per questi luoghi, traendone materiale per la loro arte che stava a cavallo tra il racconto del reale e la sua involontaria (perché loro cercavano il mondo reale e lì, nel Delta del Po e nelle pianure che lo annunciano, il reale è fatto così: imprendibile) trasfigurazione in qualcosa di metafisico e dal valore universale: lo scrittore Gianni Celati e il fotografo Luigi Ghirri. Due viandanti armati di penna, taccuino e macchina fotografica, senza fucile e senza cattive intenzioni, solo l’apertura del sistema ottico e dello sguardo, nel nome dell’amicizia.

N.d.A. Una versione ridotta di questo racconto è uscita per la Repubblica, venerdì 21 aprile.

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Uno stivale rosso

 

Forse questa storia, come tutte le storie, è cominciata tantissimo tempo fa. E’ cominciata ancora di prima di incominciare, se capite cosa intendo.

Certo, un punto di partenza per iniziare a raccontarla io l’ho trovato, ma questo non esclude che sia possibile risalire a un tempo ancora più lontano delle passeggiate lungo la spiaggia che mia madre mi portava a fare ogni domenica quando ero un bambino.

Mi mostrava le conchiglie, le impronte dei granchi sulla sabbia, le cabine vuote degli stabilimenti balneari. Vuote perché mia madre detestava la spiaggia nei mesi estivi e il mio ricordo infantile del nostro Adriatico è sempre grigio e ventoso, oppure di sole limpido e freddo, e invariabilmente, nelle mie immagini mentali, la spiaggia è semi deserta e gli stabilimenti sono chiusi. Il mare d’inverno è come un film in bianco e nero visto alla tivù diceva quella canzone così triste, e anche per me il mare era questo, è ancora questo: poca gente che cammina lungo il bagnasciuga stringendosi al collo il bavero del cappotto, i capelli che si gonfiano per via di vento e salsedine, i cani che corrono dietro a bastoni lanciati verso l’acqua e a volte hanno paura di bagnarsi le zampe nella spuma che ribolle.

Mia madre camminava accanto a me trascinando la gamba destra in un buffo modo, e lo faceva da sempre, da che ho memoria di lei, della sua figura piccola e dei suoi capelli rossi, e ora che ci penso non gliel’ho mai chiesto perché camminasse in quel modo. Le persone che amiamo sono quello che sono, i loro difetti, le loro caratteristiche, le loro stranezze, ci sono così familiari che non ci troviamo nulla di strano, soprattutto finché siamo bambini. I bambini prendono le cose così come sono. E io non me lo sono mai chiesto, ad esempio, perché mia madre avesse i capelli rossi e le lentiggini sugli zigomi, perché indossasse sempre lunghe gonne fiorite o sorridesse alzando l’angolo destro delle labbra e mai il sinistro. Era lei. Era mia madre, Sabina, una piccola donna dai capelli color fiamma che claudicava leggermente tenendo per mano il suo bambino lungo una spiaggia semi deserta.

Ruotava l’anca di qualche grado e le sue impronte sulla sabbia erano diverse: una era dritta e, diciamo così, normale, precisa, come quelle di tutti insomma; l’altra invece si portava appresso una specie di rotazione, come uno sbuffo circolare subito prima di posare il piede a terra. Una pennellata rotonda. La sua impronta digitale. Mi piaceva rimanere un po’indietro, con lei che mi tirava per la manina e voltarmi a guardare quel disegno che continuava ripetersi lungo il nostro percorso. Quell’orma mi faceva sentire al sicuro: non l’avrei mai persa, mia madre, come a volte succedeva nelle fiabe che lei mi leggeva la sera, prima di mettermi a letto. Non l’avrei mai perduta perché avrei potuto riconoscere le sue impronte da quelle di chiunque altro al mondo. Se anche se avesse cambiato scarpe ogni giorno e la suola avesse lasciato righe, quadretti, loghi o nomi diversi, io l’avrei ritrovata, perché nessuno, camminando, faceva quello stesso disegno che conoscevo così bene.

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Il taccuino di Strada Provinciale Tre

Prima di diventare un romanzo e prendere la forma di un libro, Strada Provinciale Tre era un taccuino di appunti.

Questo.

Lei è una donna che corre.

Corre.

Una strada larga che taglia campi distrutti da fabbriche, vivai, teli di plastica gonfi come pance malate, insegne di trattorie per camionisti, fumo dalle ciminiere grige in mezzo al paesaggio piatto. Corre sul bordo della strada, i piedi battono forte sull’asfalto pieno di rughe, buche, crateri, mozziconi di sigaretta, preservativi, merde di cane, gatti spiaccicati, piume d’uccello, lattine accartocciate. Inciampa, cade in avanti, le mani la sostengono, si brucia i palmi sull’asfalto, si screpola le unghie, sanguina, ma si rialza e ricomincia a camminare, a correre. I camion sfrecciano davanti a lei. Musi mostruosi, ghigni giganteschi con occhi feroci che lampeggiano e non rallentano. I colpi dell’aria sono schiaffi violenti che rallentano la sua corsa, la ostacolano ma non la impediscono. Continua a correre. I rumori, tremendi, insopportabili ringhi, sbuffi d’aria fetente, l’odore degli pneumatici sciolti, di olio, dei gas di scarico, benzina. Il rumore, ancora. Che copre l’ansare del suo respiro, lo annulla, lo disperde.

Una figura sottile. Assomiglia a un uccello. Magra, prosciugata. I gomiti aderenti ai fianchi mentre corre, le ginocchia che cedono ma non si arrendono.

Da dietro potrebbe sembrare un ragazzo. I Jeans sdruciti scivolano sui fianchi ossuti. Ma il volto è quello di una donna. Dimostra 40 anni. Rughe incise sugli zigomi, intorno alle labbra, sulla fronte. Non si può sapere se è stata bella o se è sempre stata esattamente così. Gli occhi sono chiari. Il naso sottile, appena un po’ adunco. Zigomi troppo pronunciati. Capelli corti, ciocche spettinate che le cadono sulla fronte, sugli occhi. Li butta indietro con un colpo secco della testa, senza smettere di correre.

Le hanno detto che se segue questa strada fino in fondo – dovunque sia e a qualunque distanza si trovi questo ‘fondo’ – arriverà finalmente al mare.

Lui è una ragazzo. Ha circa 20 anni. A volte sembra molto più giovane, altre molto più vecchio. E’ già segnato ma l’espressione è quella di un bambino. Segnato dalla strada. Nella sua testa ci sono dei buchi, delle cose che non ricorda. Ma nessuno se ne accorge. Vive per strada. Da quanto tempo? Non lo sa. Da dove viene? A volte chiede l’elemosina. Altre volte fa una lavoro qualsiasi, il primo che trova, per qualche giorno, mai più di una settimana. I lavori che fa distruggono le mani, la schiena, i pensieri. Poi però può mangiare. Per un po’. Ha uno zaino di tela. Lo porta sempre con sé. Dentro c’è la sua casa, la sua storia. Quando dorme per strada in posti in cui c’è passaggio gli capita che gli uomini lo molestino. Alcuni gli offrono dei soldi. Qualche volta accetta, ma solo da quelli educati, gentili, e solo alle sue condizioni. Appeso al collo porta un coltello, nascosto sotto la maglietta, ma l’unica volta che gli sarebbe servito non è riuscito ad usarlo. Si fa chiamare con un nome che non è il suo. Il suo nome vero lo ha scritto dentro lo zaino. Un rettangolo di carta cucito dentro una tasca con nome cognome data e luogo di nascita. Così non se lo può dimenticare.

*

Lei: il mondo visto dal basso. Cosa c’è per terra. Nelle città, sulle strade, sul ciglio delle grandi arterie violentate dai camion. Lei tiene gli occhi bassi, quindi vede.

*

Perché sta correndo su quella strada?

E’ proprio questo l’inizio?

Cosa sta cercando?

E da cosa scappa?

*

Le traiettorie: disegna, come se fosse un grafico, le traiettorie dei personaggi nello spazio e vedi dove si intersecano, dove accade che si incontrino.

*

La donna ha un nome o è solo ‘la donna’?

*

Granada, dicembre 2002

Stanotte, al suono dell’oud di Dahfer Youssef e con il mantra continuo di 100 voci sono piombata di nuovo su quella strada, sulla Sp3. Era notte, l’asfalto lucido e la donna correva. Ai piedi, aveva vecchie scarpe da ginnastica di tela sfondate.

*

Laudano, di Tracey Moffatt, serie fotografica: ecco le visioni della donna. Sipari che si aprono nella sua testa. Ecco la ‘grana’ di quelle visioni.

*

L’uomo senza passato di Aki Kaurismaki.

*

Come si fa a non ritornare? Bisogna perdersi. Non so. Imparerai. Vorrei che mi indicassero come perdermi. Bisogna non avere riserve mentali. Disporsi a non riconoscere più nulla di quello che si conosce, dirigere i propri passi verso il punto più ostile dell’orizzonte.”

Bisogna imparare che il punto dell’orizzonte che vi sembrerebbe di dover raggiungere non è sicuramente il più ostile, anche se così lo si valuta, il punto più ostile è quello che non si penserebbe mai di giudicare tale.”

Marguerite Duras, Il viceconsole

“I passi seminati hanno attecchito. Più in là non vuol dire nulla.”

M.D.

*

Vergogna. Vergognarsi. Di cosa? Di niente ci si vergogna più. Solo di essere poveri.

Prima, lei era come tutti gli altri. Adesso, c’è la vergogna della povertà, e questa si trascina dietro tutte le altre. Finchè hai i soldi, finché sei ricco non ti vergogni di niente, dopo, ti vergogni di essere povero. E’ così che comincia. A seguire, tutto il resto. Se sei povero, non puoi permetterti l’arroganza, la cattiveria, l’ignoranza, se sei povero devi almeno essere virtuoso.

*

Lei dentro il supermercato che conta gli spiccioli racimolati. Trema. Le tremano le mani, il mento, è sul punto di scoppiare a piangere. Ha le unghie sporche, il palmo sporco. Si vergogna.

*

I pensieri della donna

Ho pensato che se restavo dentro quella casa un secondo di più l’avrei ucciso. Non che avrei potuto farlo. L’avrei fatto. Avrei afferrato un oggetto qualsiasi, una bottiglia, un coltello, un sasso, qualsiasi cosa- e gli avrei afondato la testa. Avrei guardato il sangue e sarei rimasta impassibile. Non l’ho fatto, naturalmente. Ho preso le chiavi della macchina. Con molta calma mi sono infilata la giacca a vento, l’ho abbottonata fino alla gola, ho afferrato la zainetto e sono uscita. Lui era seduto sul divano davanti alla televisione. Non so cosa stesse guardando. Aveva le palpebre abbassate, lo sguardo distante, i piedi nudi appoggiati sul tavolino. Mi sono tirata dietro la porta. Fuori, il cielo era nero, senza una stella.

Ho pensato ai bambini che dormivano al piano di sopra. Nei loro piccoli letti bianchi e blu, i piumini con disegnate le foche. Ho pensato alle loro piccole bocche dischiuse nel sonno che puzzano di latte e biscotti, alle dita aggrappate al bordo delle lenzuola. Alla lucina fatta a forma di stella che illumina di un tenue azzurro la stanza, visto che hanno paura del buio.

(Naturalmente, non ci sono bambini, non ci sono mai stati.

Non c’è nessun bambino.

Solo una stanza buia con l’aspirapolvere, l’asse da stiro, le cassette con le mele. Una stanza buia e gelata.)

Ho aperto la portiera della macchina. Ho messo in moto.

*

Sempre sulla donna che corre. Ha gli occhi di un animale impaurito, stringe le dita contro il palmo, si incide la carne con le unghie. Sono momenti, poi passano, la paura passa.

*

Povertà.

Vergogna.

Paura.

Lavora su questi tre punti.

*

Ecco come la donna incontra il vecchio. Il vecchio esce tutte le mattine alle otto. Si tira dietro il cancelletto. Ha il suo cappello piantato in testa. Un cappello ridicolo da ragazzino con la marca di una casa sportiva. Una borsa di tela con il marchio coop stampigliato sul fianco e una grossa macchia scura (caffè o terra?). Lei lo sserva per molte mattine dal suo rifugio. Una mattina comincia a seguirlo nel suo percorso lungo la SP3. Da casa fino alla minicoop. Nel tragitto, il vecchio cammina a testa bassa, osserva il bordo della strada, il fosso, ogni tanto si ferma a raccogliere qualcosa.

E’ così che la donna incomincia a imparare cose sul vecchio. Non sa perché l’attragga così tanto. Cosa c’è in lui che la interessi così. Forse è perché è solo. Completamente solo. Come lei. Forse perché ha dei segreti. Per forza deve averne: tutte le persone sole hanno dei segreti. Anche solo per il semplice fatto che non parlano di sé con nessuno.

*

Sometimes our secrets are all we got

Our lies we must defende…

A volte i nostri segreti sono tutto quello che abbiamo

Dobbiamo preservare le nostre bugie…

Nick Cave

*

Degradazione. C’è anche questo. E’ una delle cose che la donna persegue, non sapendolo.

*

Let’s get lost

*

Via Dritto.

Boschetto del macero.

Case abbandonate.

Ranche Cristina, passeggiate a cavallo.

Vivai Padanaflor.

Stazione di servizio Shell rossa e gialla.

Autostrada.

Discarica fusti.

*

Sui percorsi dei personaggi cerca una pianta, una veduta dall’alto della zona e disegna i percorsi, i passi che si intrecciano e si sopvrappongono.

Rivedi Bestiario Veneto di Paolini.

Usa anche Joseph Beyus.

Capannoni, aree industriali.

Disegna in progress il mutamento della campagna vivisezionata un poco alla volta.

*

La casa del vecchio si affaccia sui campi. Un rettangolo d’erba medica soffocato dai capannoni.

*

Cosa c’è sul ciglio delle strade:

Bottiglie di plastica.

Preservativi usati.

Carte di gelati.

Pezzi di coppertoni esplosi.

Pacchetti di sigarette vuoti.

Bulloni.

Viti. Chiodi. Pezzi di ferro.

Fazzoletti di carta.

Carcasse di animali.

Merde di cane.

Una coda di topo.

Una scarpa da tennis sfondata.

Una spazzola sporca.

Cocci di vetro.

Papaveri ranuncoli piscialetto

Soffioni viole piccole

Lattine tappi a corona

*

I verbi della strada, i rumori:

frusciare

raschiare

rombare

sgommare

*

Macchine agricole:

Gaspardo: rossa scritta bianca

Trattore: Komatsu giallo con coperchio azzurro

Gallignano: arancio/verde

Aquila Maschio

New Holland

Laverda

Ferri

Capannone deposito attrezzi agricoli

*

…Freedom is a scary thing

Not many people really want it…

..la libertà è una cosa che spaventa,

non è molta la gente che la vuole davvero…

Laurie Anderson, Statue of Liberty

*

La testa di cartapesta sfondata di un carro di carnevale blu graffiti cuori blu azzurri, lo scheletro di ferro all’interno sul quale penzolano brandelli di carta. E’ qui che può dormire la donna per un po’ di notti. Sembra un aereo, una macchina per il volo di quelle disegnate da leonardo.

Odore: fieno, paglia, benzina, olio di macchina, grasso, merda di piccione, il sottofondo continuo dei camion lungo la strada. Le finestre: lamiere ondulate gialle e verdi che lasciano trasparire un po’ di luce e colorano lo spazio.

*

Quei bambini nella testa della donna: fino alla fine non si saprà se ci sono davvero, se esistono davvero. Però ci saranno tutto il tempo, dentro la testa della donna. Alla fine, solo alla fine, si capirà che esitono appunto solo lì. Una possibilità nella sua testa.

*

La vita di prima. La famiglia. La casa. Il lavoro. La vita normale, quella di tutti. Ma in ogni scena del passato, gesti minimi, occasioni che deragliano impercettibilmente.

*

La parte iniziale, quella sulla donna che cammina, sui suoi passi sopra il reticolo di campi e strade intorno alla Sp3 deve durare a lungo. Nessun pensiero della donna, ancora, solo una mdp sui suoi spostamenti e movimenti, sul suo spaesamento che diventa il nostro, sull’orrore di quella campagna senza più carattere.

*

L’incontro della donna con il camionista non deve essere stereotipato. Vorrei che lei lo guardasse scopare con una prostituta, ne rimanesse sconvolta e affascinata al tempo stesso. Lui potrebbe accorgersi di lei, del suo sguardo febbrile. Vede dove dorme e torna a cercarla. Non sarà una vera e propria violenza, niente urla o richieste d’aiuto. Lei dev’essere stupefatta e assente. Guarda il proprio corpo come fosse quello di un’altra. Lacrime e rabbia arriveranno soltanto dopo. Durante, silenzio stupito, attonito, come se stesse cercando di capire qualcosa, come se aspettasse una rivelazione su di sé.

*

Dormire. La donna che dorme dove capita, per terra, da sola, rannicchiata su un fianco. I ricordi di prima, di quando dormiva con un altro corpo vicino.

*

Tutti lasciano solo chi si perde.

R.M.Rilke, Il giardino degli ulivi

*

Catalpa. Le foglie a cuore o a gocciolina. Filamenti dorati. Acquosi.

*

La gente dentro le macchine che la guarda. Famiglie, coppie con il cane, ragazzi e ragazze, uomini e donne da soli, vestiti eleganti, chiusi negli abitacoli con l’aria condizionata e la radio accesa. Hanno paura o provano pena e disgusto per lei. La donna che cammina sul ciglio della provinciale è un’aliena. Un essere incomprensibile dal quale tenersi a distanza, qualcosa che turba in modo totale. Tenersi a distanza quasi temessero di poter essere contagiati dalla sua follia.

*

ora andar via da questo grumo torbido

che è nostro e tuttavia non ci appartiene;

(…)

da tutte quelle cose che ogni volta

s’aggrappano a noi come spine-

andarsene e l’una e l’altra cosa

che più non vedevamo tanto era quotidiana e abituale, all’improvviso

quasi fosse un principio, da vicino

guardarla. (…)

e comprendere come impersonale,

come di la da tutti era la pena

onde la nostra infanzia fino all’orlo era piena-

pure, andar via, mano da mano come

riaprendo una piaga già guarita,

andarsene, ma dove? Nell’incerto,

a una calda, lontana, estranea plaga,

come una quinta dietro ad ogni gesto

indifferente parete o giardino,

e andarsene, perché? Per impulso o natura,

per impazienza, per attesa oscura,

per l’Incompreso e per l’Incomprensibile;

Prendere tutto questo su di sé, e forse invano

Lasciar cadere il nostro dalle dita

Per morir soli e non saper perché-

Questo è l’ingresso in una nuova vita?

R.M.Rilke, La partenza del figliuol prodigo, Parigi, giugno 1906

*

Nel taccuino di Vera

E’ di notte che l’inferno assume la maschera peggiore. Di notte, quando nelle case intorno si spengono tutte le luci, tutte le voci. Quando sulla strada il fruscio delle automobili e dei camion si assottiglia e si rarefà. Ecco arrivare il richiamo lacerante dei piccoli rapaci notturni. Di notte, il suono dei miei stessi pensieri è la cosa più forte di tutte, il battito del mio cuore fuori tempo, il raschiare sordo del sangue dentro le vene ristrette, è di notte che arriva la paura cattiva.

Io. Condannata a una non esistenza.

O a un esistenza

Eccessiva

Multipla rifratta allucinante.

Le mie vite possibili mi si schiantano addosso alla velocità d’impatto di un camion a 130 km/h e io esplodo.

Letteralmente mi disintegro.

Sarebbe più facile essere sulla strada a camminare.

A rischiare davvero un urto mortale, una deflagrazione definitiva.

Le definizioni sono la morte, ma questo abisso spalancato cos’è?

Donna

Moglie

Collega

Amante

Madre

Amica

Figlia

Non sono niente non riesco più ad essere niente e sto male ma ogni volta che provo ad essere qualcosa, ogni volta che sono qualcosa, mi sembra di morire.

*

Questa quiete sospesa.

La paura, a un passo.

Il buio, a un passo.

Il cratere fumante, a un passo.

Lo stagno torbido, a un passo.

Il coltello, il sonnifero, a un passo.

Io resto così: le spalle al passato, la fronte al futuro, le gambe nel presente, la testa dappertutto.

Il cuore, qui.

Certi giorni, con quanta timidezza, splendo, ma l’ombra è lì. Piano piano, arrivare a non pensarci, a quell’ombra, a farla svaporare come un alone umido sulla stoffa, che si asciuga.

Cose che tornano, altre che spariscono. Poi ritornano ripartono ritornano. Un’alternanza costante.

Quale delle due vite è vera? Quale delle due donne, è Vera?

Entrambe. Ma la presenza dell’una esclude l’altra.

Un cucchiaio che mi scava dentro. Il suono delle cicale, il sole che da giorni si alterna a nuvole pesanti senza mai decidersi se restare o andare.

Cosa sto facendo? Aspetto. Ma cosa aspetto? Che cambi qualcosa che non può cambiare: io.

La mappa di un territorio come un’anima, come una mente, come un cuore.

Ci sono le strade. I fiumi. Acqua.Terra. Incroci. Sovrapposizioni. Il tempo.

Ogni volto, un peso, ogni gesto, un peso, ogni voce, e mano, e richiesta, e sorriso. Sogno di non essere niente, liquefarmi, svanire. Aria leggera per quelli cui passo di fianco, carezza di vento, niente. Sogno di cominciare a camminare e continuare a farlo, all’infinito.

Camminare. Una linea bianca sotto gli occhi. Un piede avanti all’altro. Mi guardano. Nei loro occhi c’è pena, o paura. A volte disgusto. Sono un’aliena. Una pazza sporca e malvestita che cammina lungo una strada provinciale. Sorrido del loro disprezzo, sorrido della loro pena, del loro disgusto.

….la gente, tutta la gente, le facce dietro i finestrini impolverati delle automobili, la sera, all’uscita dai posti di lavoro, dai negozi, dagli uffici, dai supermercati, tutti la stessa stanchezza, la stessa noia, la stessa disperazione, i giorni tutti uguali, diversi ma uguali, le vite, diverse, ma uguali. Inchiodati alle responsabilità, quelle scelte e quelle no….

….essere sola, impossibile, è questo il nodo di tutto, la punta conficcata dentro i polmoni, non sono mai sola, non sono più sola, la mia testa è piena di gente e non c’è niente che io possa fare per levarla, tutta quella gente, mi sento invasa, mutilata…

…uscire per strada e camminare. oppure sbarrare tutte le porte e le finestre, affondare la testa in un cuscino e chiudere gli occhi. Uscire e camminare senza meta, ma dove, su una strada provinciale, nella scia densa dei gas di scarico che si accumulano lì da questa mattina, all’alba o nel centro del paese, nei quartieri residenziali a vedere la morte lenta degli altri, villette a schiera e cani dietro le sbarre. E cammino, e penso pensieri sparsi, rapidi come un passaggio di nuvole sul sole, guardo la strada deserta a questa ora di notte dietro la recinzione del parco…

… possibilità/impossibilità

parola/silenzio

spegnersi del mondo/accendersi del mondo….

Questa cosa dello svegliarmi nel mezzo della notte sarà durata tre mesi. L’ora più o meno era sempre la stessa, le tre e tre quarti, quattro. Dentro quel quarto d’ora, mai prima e mai dopo. Un punto profondissimo della notte, niente a che fare con la sera e niente a che fare con l’alba. Un punto di buio totale, di silenzio assoluto. Terrificante. Ci mettevo due o tre minuti prima di decidermi ad alzarmi e quando lo facevo lo facevo con lentezza, scivolando leggera fuori dalle coperte, perché lui non si svegliasse. Il mio cuore batteva violento, avevo freddo. Freddo alle piante dei piedi nudi sulle mattonelle del pavimento, freddo alle mani, al petto, alle ginocchia. Un freddo cattivo che non smetteva di mordere neanche dopo che avevo infilato una felpa e un paio di calze di lana. Era febbraio. Il terribile febbraio con le sue giornate gelide, gli spifferi e la cappa bianca del suo cielo tutto uguale. Ma ormai, le stagioni avevano smesso di interessarmi. Avevo la sensazione di conoscere in anticipo ogni loro minima variazione, sapevo che verso la metà di ottobre cominciano i primi veri freddi, le notti con la temperatura che scende anche di dieci gradi, che a novembre arriva la nebbia, che a gennaio il freddo si intensifica, che febbraio è bianco e che un giorno improvviso di marzo, poco prima della metà del mese, arriva di colpo una giornata primaverile e sbocciano i tulipani. Una volta, tutto questo mi emozionava. Mi interessava. Curavo le piante sui davanzali delle finestre, le ritiravo quando cominciava a far freddo, piantavo i bulbi nelle loro cassette e sapevo sempre quali erano le verdure di stagione, quelle vere, preparavo conserve di frutta per l’inverno, stipavo la legna per il caminetto in tutti gli angoli liberi della casa quando stava per arrivare l’autunno, facevo il cambio dei vestiti negli armadi riponendo ogni cosa dentro un sacchetto di plastica con la sua pallina di canfora o il bigliettino di carta profumata. Una volta. Tre anni fa. Due anni fa. L’anno scorso. Poi è arrivato febbraio. Il tremendo febbraio. E io sono scivolata. Scivolata in un buco nero della notte. Alle tre e tre quarti. Una sigaretta accesa e il vetro di una finestra socchiuso sul cielo nero. La mia felpa infeltrita stretta attorno al collo, un gatto che mi girava intorno alle caviglie nude. Tutto quanto mi aveva abbandonata. Tutto mi abbandona continuamente, ho pensato. Tutto ci abbandona continuamente. Persone, animali, i giorni e le ore, le foglie sugli alberi, i programmi alla televisione, i maglioni che si sfaldano dentro gli armadi, l’intonaco che cede e si sbriciola per terra. Tutto. Anche noi ci abbandoniamo. Io mi abbandono. Mi perdo un istante dopo l’altro e di me non so più niente di niente.

In casa, gli orologi segnano tutti un’ora diversa. Uno scarto minimo, di due minuti uno, di dieci l’altro, di un quarto d’ora, uno scarto minimo che lo stesso mi confonde, mi getta nello sconforto più nero, e il semplice gesto che potrei- che dovrei- fare, è un gesto impossibile. Non ce la faccio. Accendere la televisione, controllare l’ora giusta sul televideo e poi salire le scale, prendere la sveglia gialla sulla testiera del letto e spostare le lancette, poi scendere, tenere a mente i secondi che scorrono e raggiungere la cucina, staccare l’orologio a muro dal suo chiodo e sistemare anche quello e poi in soggiorno, e in bagno. Tutti questi orologi sparsi dappertutto, lancette che segnano le ore, circonferenze percorse, devastate, da lancette acuminate come lame di coltello che lacerano la carne del tempo, la squartano, la aprono, lì a rammentarmi lo scempio che faccio delle miei giornate, il disastro sanguinante della mia vita. Tempo che passa, che si perde, sacche di ore e minuti e secondi gonfie di inutilità, sature di nulla. E allora prenderli, questi orologi e schiantarli per terra, calpestarli, farli esplodere, disintegrarli e insieme a loro disintegrare me, i miei giorni, ore e minuti, tutto quanto. Fermare tutto, per una notte e lasciar colare il sangue invisibile del tempo. E invece resto immobile. Nella testa confondo i tempi. E non allineo la corsa degli appuntamenti, quale l’ora di accendere il fuoco sotto la pentola dell’acqua, quale quella di cominciare ad apparecchiare la tavola, quale il momento di correre fuori a comprare il vino prima che il supermercato chiuda. Fuori tempo su tutto. In anticipo su tutto.

…sempre bottiglie, e lattine, nei fossi, e ortiche, fiori, impalcature, un capannone vuoto, perdermi, non vista vedere, non udita, udire, trasformarmi in un sensibilissimo apparecchio senza coscienza che tutto registri e tutto trattenga in sé, ma in sé non sia niente, non abbia pensieri, né emozioni…

…mi fanno paura i fari delle macchine che passano, i fasci di luce che sbattono sulle lamiere bucate e sui miei occhi, il suono del vento che scuote scuote scuote, sembra che smetta e poi riprende. Buio luce luce luce luce buio, apro gli occhi ma li richiudo subito. Li apro e li chiudo. La notte è un alito gelato che fa tremare il capannone, è buio qua dentro e freddo, buio e freddo, paura, anche se fa caldo, un caldo terribile, saranno quaranta gradi, lo stesso, io ho freddo, sempre freddo…

…se mi alzo in piedi, dal portone posso vedere le luci delle case coloniche in lontananza. Piccole luci gialle. Fisse. Occhi che scrutano il buio…

…strada imbiancata, cielo color latte, i camion sulla provinciale sembrano tutti bianchi anche loro…

Come si fa a cambiare senza perdersi?

 

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Il problema è che si arriva sempre da qualche parte.

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“Lente concrezioni del tempo sul luogo.”

Lawrence Durrell, Balthazar

Scrive da qualche parte Pursewarden: viviamo una vita che è solo una selezione di finzioni. La nostra visione della realtà è condizionata dalla posizione che occupiamo nello spazio e nel tempo. Non dalla nostra personalità, come invece ci piace di credere. Così, ogni interpretazione della realtà si basa su una posizione che è unica e individuale. Bastano due passi a destra, o a sinistra, e l’intero quadro muta.”

 

Lawrence Durrell

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“Ormai aveva coperto una distanza talmente grande che gli sarebbe stato impossibile riuscire a ricordare da dove era partito.”

Paul Auster, Leviatano

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2 maggio 2004

festa di primavera a San Giovanni in Persiceto. Carri di carnevale riciclati per l’occasione. Lancio di fiori. Selciato ricoperto di garofani a gambo lungo, spezzati, sbricolati spappolati. Tutto il paese in strada. Tutti vestiti a festa. Soprattutto anziani, ma anche coppie giovani con i bambini piccoli mascherati e adolescenti sculettanti al ritmo delle tremende canzoni vomitate fuori dagli altoparlanti dei carri.

Stand gastronomico che offre panini e crescente imbottita di mortadella. Il cartello dice: CRESCENTE PANINI SALUMI PER TUTTI GRATIS FINCHé CE N’E’.

La donna segue il rumore della folla. Le luci. I palloncini colorati che sfuggono di mano ai bambini e volano nel nero. L’impulso che la spinge a mescolarsi a quella folla è la fame. Cammina rattrappita le braccia strette attorno al corpo, si lascia urtare dalla folla in delirio. Si appiattisce contro i muri quando passano i carri. Gli occhi feriti dalle luci violente dei fari colorati da discoteca anni 80 che sciabolano l’aria.

L’uomo che consegna i pezzetti di crescente imbottita avvolti nei fazzolettini di carta. Lei che punta dritta al vassoio, scarta la mano del vecchio e prende tutto quello che riesce a prendere. La gente che la guarda allibita ma nessuno le dice niente. Si vergognano per lei. Il vecchio resta lì con la mano ferma a mezz’aria e non sa cosa dire.

Ricordati tutto: il luogo, le facce della gente, l’atmosfera, gli odori (olio fritto, patatine, salumi, strutto, zucchero filato, i profumi delle donne, le noccioline tostate), i palloncini colorati che volano nel nero, la luna quasi piena, i carri di carnevale. Le voci concitate degli animatori, i vestiti pacchiani delle donne, le dentiere che azzannano crescentine. I bambini urlanti, capricciosi. Le panchine di ferro tubolare viola. Lo sguardo triste dell’uomo dello stand gastronomico. Le scarpe con i tacchi alti. Le espressioni avulse di certi uomini. Il rumore assordante della musica sparata dai carri.

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Non restare mai troppo a lungo nello stesso posto. Cambiare stanze, muri, strade. Cambiare luce, e voce. Cambiare lingua.

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Lo penserà mai, lei, la donna “se potessi tornare indietro?”

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Camminare. Linea bianca sotto gli occhi, un piede davanti all’altro. Questione di ritmo. La mano che costeggia il campo strappa arbusti durante il cammino (come si chiamano quei semi spinosi che da bambini giocavamo a tirarci addosso e che restavano aggrappati ai vestiti?)

La gente dentro le automobili. Le facce. I cani chiusi dietro i recinti delle ville che abbaiano al tuo passaggio.

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‘Tristana?’ di Louis Bunuel: l’etica del lavoro ribaltata. I cani.

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Cosa importa di questa donna? Che è scappata e che si è persa, che ha abbandonato una famiglia (un uomo), importano gli amici, il lavoro che faceva? Quello che la spinge è un insopprimibile esigenza di libertà. Libertà da tutto. Da ogni legame familiare o sociale. Libertà dalle richieste. Dagli schemi. Dalle strutture.

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Prima parte: erranza della donna.

Il ragazzo.

Il vecchio.

Ancora erranza. Le cose che vede.

Poi si ferma.

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La macchia umana di Philip Roth: il rapporto tra i due. Un uomo vecchio con una vita costruita su un segreto, una donna giovane con una vita già spezzata dal dolore.

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“Posti nei quali convivono vecchio e nuovo senza risolversi ad essere né l’uno né l’altro, luoghi come sospesi, laconici.” Gianni Celati, Mondonuovo

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Perché Vera va proprio in quella direzione? Perché la Trasversale di Pianura e non un’altra provinciale. Cosa cerca in quella direzione? Oppure il suo movimento è casuale? Io ho idea che ci sia il mare dentro la sua testa, sì, deve aver sentito dire che se prosegue prima o poi arriva al mare.

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Quanto dura questo ‘viaggio’ sulla Sp3? Due tre settimane, forse un mese. Non di più.

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L’angoscia vera è solo materiale.

L’angoscia vera è solo quella della classe operaia, solo quest’angoscia d’ordine materiale è degna d’essere presa in considerazione.

E quella degli altri?

Quella degli altri, non conta niente.

Privilegio di classe.”

Le camion, Marguerite Duras

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Il punto qui è la differenza tra la donna e gli altri due personaggi, qui lo scontro tra di loro. L’angoscia esistenziale della donna è privilegio di classe. La vera angoscia è quella del vecchio e del ragazzo, ma d’altra parte, il dolore non è mai possibile misurarlo.

Dunque?

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“En inventante des solutions personelles à l’intolerable du monde…par example le fait de faire du stops tous les soirs en inventante sa vie…”

Le camion, M.D.

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La casa del vecchio: descrivi. L’hai vista. E’ orribile. Verde pallido. Verdino. Isolata. Con una scala esterna che porta al primo piano. Lui sta al piano terra e al piano superiore? Non c’è nessuno. La polvere. Mistero della casa vuota. Perché non ha mai voluto affittarla?

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Skip James. Il vecchio ascolta il liscio, e il blues.

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“Nello spazio cartografico, l’osservatore è fisso, statico, è il soggetto della filosofia cartesiana; nei luoghi, invece, l’osservatore cammina, tocca, aspira, annusa…” Franco Farinelli, Geografia

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La Polizia Provinciale che arriva alla Barchessa di mattina per uccidere i piccioni in esubero. Sparano. I piccioni morti cadono nel mucchio al centro del capannone, quelli vivi, confusi, si buttano sul mucchio dei morti, probabilmente pensando che l’unione faccia la forza e possa salvarli. Così il lavoro è più facile, si spara nel mucchio tra morti e vivi.

Il suono? Urlavano, i piccioni?

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Balle di fieno. Il paesaggio che da una notte all’altra cambia completamente.

Le cave di sabbia e ghiaia.

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Cose viste sulla strada/Personaggi

Una donna che cammina lungo la provinciale spingendo davanti a sé una carrozzella con sopra un vecchio. Al tramonto, primo giorno di agosto.

Una ragazzina di dieci anni vestita di Lycra verde acido (maglietta e pantaloncini corti) butta la spazzatura in un cassonetto poi si allontana saltellando su una stradina sterrata.

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Vecchie in bici con la spesa attaccata ai manubri.

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Un’anziana, capelli corti, stopposi, una mano sotto il mento, vestita con un abito fiorato- seduta su un gradino a contemplare un orto: le file di pomodori, melanzane, zucchine. Sguardo sognante, perso.

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Agosto: zolle di terra nera, grassa, umida, rivoltate.

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Vera che pensa al suo corpo di prima, al rapporto che intratteneva, prima, con lui, a come se ne prendeva cura, ai motivi per i quali ne era ossessionata, e a quello che invece prova adesso: indifferenza, estraneità. La lotta contro la fame di prima e cos’è invece la stessa fame, adesso. La fame di adesso è una cosa come un’altra, non prende lo stesso spazio, non fa nessuna paura, ha una voce molto più bassa.

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Secret Window, dal racconto lungo di S.King, anche la storia della donna somiglia a questa: la lotta dentro la sua testa. Gli squarci della vita di prima, il lavoro, la casa, la famiglia, quello che ha fatto…qualcosa di orribile, qualcosa per cui ora è costretta a scappare.

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Avventure ‘picaresche’ della donna sulla strada.

Incontri. Dialoghi anche deliranti. Dialoghi di una che ricomincia a parlare e non sa più bene come farlo.

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“Si sdraiò sul suo letto ad ascoltare i rumori nell’aria notturna, un’aria più densa di quella del giorno. Ora sono qui, pensò. O almeno, sono da qualche parte.”

J.M.Coetzee, La vita e il tempo di Michael K.

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Dall’intervista a Tiziano Terzani, ANAM IL SENZANOME > falso funerale hindu. A un certo punto, il seguace, finita l’ultima parte di vita attiva, quando sente la vecchiaia approssimarsi, abbandona il mondo civile e si ritira nella foresta per diventare asceta e dedicarsi alla vita spirituale. Salta la pira infuocata e sparisce nel bosco.

Fuoco= liberazione

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http://www.einaudi.it/libri/libro/simona-vinci/strada-provinciale-tre/978880618787