Il più grande dei mondi

"Appoggiato al lungo manico del mio falcetto, faccio una pausa durante il lavoro nel frutteto e osservo le montagne intorno e il villaggio sottostante. Mi domando come mai i pensieri delle gente siano arrivati a girare più in fretta del volgere delle stagioni."

Masanobu Fukuoka, La rivoluzione del filo di paglia

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La mattina apro il file e non so quale voce incontrerò. Ricomincio da capo ogni giorno e anche se la pagine lentamente si accumulano, non ho la più vaga idea, ancora, di quale forma stia prendendo questa storia che scrivo. Queste storie che scrivo. Perché ci sono due cose che corrono parallele e a seconda dei giorni è l’una oppure l’altra a chiamarmi, come sempre mi accade. A un certo punto arriva il momento della disciplina: mettere tutte le carte in tavola e cercare di decifrare l’arcano, ma ancora non sono lì. Allora apro altri file, ricostruisco attimi misteriosi di vite lontane nel tempo, oppure mi lascio sommergere dalle parole di qualcun altro. Vedo, respiro, vivo e penso con il corpo e la testa e le frasi di un altro scrittore (una scrittrice, in questo particolare caso) e mi fa bene. Tradurre è così: ti allontana da te stesso e ti costringe all’attenzione, alla cura del dettaglio, ti obbliga a trovare un differente ritmo di respirazione, non quello che ti è naturale, ma quello che usa questo altro, -o altra- al quale ti accosti con umiltà e pudore, spesso senza nemmeno domandarti se le cose che scrive, e come le scrive, ti piacciano o meno. Sei al suo servizio e non puoi permetterti di dimenticarlo nemmeno per un istante.
 
Alzo lo sguardo verso gli alberi fuori dalla finestra. Attendo con impazienza il momento in cui le foglie cominceranno a cadere e finalmente la vallata si aprirà davanti a me, un orizzonte più lontano, più largo e azzurro. L’orto certi giorni posso anche dimenticarlo: piove un poco quasi tutti i pomeriggi. I pomodori sono ancora verdi. I baccelli dei fagioli si gonfiano e arrossiscono sulla pianta e zucchine e insalate si moltiplicano senza particolari cure. Gusci d’uova sbriciolati e macerato di aglio e rosmarino per allontanare afidi e lumache. Stop. La gatta mi segue nei miei giri di perlustrazione e affonda le unghie nel terriccio smosso dalle talpe. Qualche giorno fa è passata una lupa sotto le finestre del mio studio. Al primo colpo d'occhio ho pensato (o forse l'ho detto, ché ormai parlo da sola): "ma che cinghiale magro!". Poi lei è passata di nuovo, probabilmente seguiva le tracce dei piccoli di cinghiale, e l'ho vista bene. Era giovane, e affamata. Ho battuto le mani, non so neanche perché visto che la gatta era in casa, e la lupa ha sollevato la testa e mi ha guardato ben bene, poi si è girata e, con tutta la calma del mondo, se n'è andata verso la valle. Lo sguardo più intenso che mi sia capitato in queste ultime settimane: non si dimenticano, gli occhi di un lupo, ed è la seconda volta che li incontro, in pochi mesi.
 
Mi domando se sono io ad essermi un poco allontanata dagli esseri umani ai quali volevo bene e con i quali condividevo molte cose o se è nella natura dei rapporti umani distrarsi, allontanarsi, allentarsi per poi forse ritrovare una traiettoria che avvicina. Questa è la vita che volevo, la vita che voglio e per la quale sono portata. Come per tutte le cose, c'è un prezzo da pagare, ed è la distanza – fisica, ma in certo modo anche spirituale- da alcune persone. Mi ripagano le testarde piccole piante che sbucano dalla terra, mi ripagano le bestie selvatiche, il silenzio, il profumo del bosco e il cielo grande sopra la testa? Credo di sì, però un lampo di sofferenza ogni tanto mi attraversa. Vorrei mostrare a quelli ai quali voglio bene le piccole avventure che si iscrivono sul dorso delle montagne un giorno dopo l’altro e una notte dopo l’altra, tante storie minime che messe insieme fanno il senso di tutto. Vorrei fargli vedere che si può davvero scegliere di vivere in un altro modo: rallentare, diminuire, lavorare uno spazio di terra ridotto, ma più in profondità. Vorrei rovesciare davanti a loro i tesori accumulati in queste settimane: rami rossi di sambuco seccati che sembrano coralli, penne e piume di uccelli, code di lucertola, ghiande, malli di noce e coleotteri con il carapace di oro fuso, grappoli di lucciole accese e l’eco di misteriosi suoni notturni. 
 
Io sono qui. E voi, dove siete?

"Io credo che se uno entra a fondo nell'ambiente che lo circonda immediatamente e nel piccolo mondo di tutti i giorni in cui vive, il più grande dei mondi si rivelerà."

M.F.

 


L’ huzun di Istanbul

tristezza- istanbulIn un han del Gran Bazar di Istanbul, qualche giorno fa, un uomo solo beve il suo cay. Ha un’espressione triste, le spalle incurvate, le mani screpolate dal freddo e chissà, forse dalla fatica. Lo guardo e penso alle parole di Orhan Pamuk sulla tristezza di questa città e dei suoi abitanti. L’immagine è sfocata perché non volevo che mi vedesse e l’ho fatta in fretta, la digitale nascosta nel palmo della mano.

"Istanbul, che si trova al 41 parallelo, non somiglia affatto alle città tropicali dal punto di vista climatico, geografico o della povertà sociale, ma per la fragilità delle sue esistenze, per la sua lontananza dai centri occidentali, per il "mistero" delle sue relazioni umane…e per il senso di tristezza, che ricorda ciò che Lévi-Strauss chiama tristesse. Per definire non il dolore che affligge il singolo, ma una cultura, un ambiente in cui vivono milioni di persone e un sentimento, il termine huzun* è molto adatto, come tristesse."

Orhan Pamuk, Istanbul pag. 97

* Huzun, parola turca di origine araba: tristezza, afflizione.


Cosa ti serve?

(…)

Sulla nave, Teresa era rimasta immobile nell’angolo che le avevano assegnato. Quando la terra era scomparsa dietro di loro, e l’ombra verdeazzurro dell’isola che stavano lasciando si era lasciata inghiottire dal mare, lei aveva buttato in acqua tutto il suo passato. Un sasso poroso, che prima di affondare aveva ondeggiato nell’acqua, indeciso. Non ne aveva più bisogno. E le cose che non ti servono, non fanno altro che ostacolarti. Nel posto dove andava, anche se non sapeva di preciso cosa o come fosse, le sarebbero servite solo gambe e braccia, spina dorsale e polpastrelli, unghie, pupille e lingua. Di tutto quello che non poteva essere utilizzato per sopravvivere era meglio sbarazzarsi. Era un animale selvatico, allenato a resistere alle intemperie, e lo spazio cavo dentro la sua gabbia toracica, che alcuni dicono dovrebbe contenere i sentimenti, era attrezzato per racchiudere esclusivamente polmoni e cuore. Neanche i sogni, dentro di lei, avevano mai trovato un terreno adeguato alla loro proliferazione, abortiti al primo apparire e subito ricacciati indietro, nel buio. Per questo, mentre gli altri passeggeri schiumavano rabbia e dolore e vomitavano ricordi e urla in ogni angolo dell’imbarcazione, Teresa si era raggomitolata stringendosi le ginocchia al petto, aveva chiuso gli occhi e si era addormentata.

Una delle guardie, mentre dormiva, le aveva rifilato un calcio nelle costole per costringerla a spostarsi, farsi più piccola ancora, e lei non si era lamentata, si era limitata a stringersi contro la parete. Da bambina, aveva sempre immaginato se stessa come un piccolo riccio: pancia tenera, aculei per difendersi e quella misteriosa e bellissima magia che sapeva fare anche lei di avvoltolarsi su se stessa e nascondere i punti vitali dentro un’armatura impenetrabile. (…)


Noir in Festival 2009

Al momento sono ancora nel Dodecaneso, ma conto di rientrare sana e salva in Italia e correre al Noir in Festival di Courmayeur anche quest’anno. Il 10 dicembre alle 16 al Jardin del’Ange incontrerò lo scrittore inglese Jonathan Trigell con il suo bellissimo e doloroso romanzo Boy A. Dal romanzo è stato tratto questo film.

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"I bambini possono essere mostri. Ora lo sappiamo. ma una volta i bambini erano solo bambini."
J.T.

Se quando hai commesso un terribile delitto eri poco più che un bambino e hai trascorso tutta l’adolescenza e l’inizio dell’età adulta dentro un carcere, chi sarai il giorno in cui ti ritroverai libero, con un nuovo nome e una nuova vita tutta da inventarti tra le mani? E soprattutto, sarà possibile riemergere dalle ombre dal passato e trasformarti davvero in una persona nuova? Gli altri, poi, te lo permetteranno, di mettere da parte ciò che sei stato per lasciare spazio a ciò che potresti essere domani? Jonathan Trigell racconta la storia di Jack, il Boy-A (identità fittizia utilizzata durante i processi ai minori) di un crimine ispirato ad un fatto realmente accaduto nel 1993 in Inghilterra (il famigerato caso Bulger: due ragazzini di dieci anni rapiscono un bambino di due in un supermercato di Bootle, se lo trascinano appresso per un intero pomeriggio, lo seviziano e poi lo abbandonano sui binari di una linea ferroviaria, dove verrà ritrovato morto). I temi che attraversano questo romanzo sono tanti: da quello della responsabilità penale di un bambino, la capacità o meno di stabilire i confini tra bene e male in un’età tanto acerba; l’utilità o meno della carcerazione; la responsabilità dei media nell’accendere ed esacerbare le reazioni dell’opinione pubblica nei casi di cronaca nera (tema attualissimo anche dalle parti nostre), la possibilità di reinserisi nel tessuto sociale anche quando si è compiuto un crimine. I rapporti tra genitori e figli. Il bullismo che si esaspera nei luoghi in cui le condizioni sociali traballano. Tutto tenuto insieme da una sensibilità straordinaria e da una scrittura semplice e raffinata al tempo stesso.

E dato che i libri chiamano altri libri…Blake Morrison (poeta e saggista inglese) ha dedicato all’analisi del caso Bulger un libro straordinario: "Come se", a metà tra ricostruzione giornalistica, saggio e memoir, che in Italia è stato pubblicato da Fandango (e tradotto da Luca Scarlini).

 


E dopo il campo, l’acqua

luceLa luce è quella di una perfetta sera d’estate. C’è una falce di luna alta nel cielo. E i riflessi sull’acqua della laguna sono di quelli che mandano in deliquio i turisti, indecisi se lasciarsi andare al godimento contemplativo o accanirsi sulle loro digitali per portarsene via un frammento, di tutta questa bellezza. Venezia è sempre così, e stasera è ancora più così del solito: poetica, magica, straniante, luminosa. Dietro le grate dell’Isola di San Servolo un tempo i pazzi guardavano l’acqua. Dalle finestre delle camerate, forse qualcuno guardava le barche allontanarsi. Nei giorni di nebbia, il mondo spariva. Restava un giardino. Il cielo. Questo odore di cordame bagnato e sale tutt’attorno.

Lei viene dalla campagna. Te la immagini una ragazza che non ha mai visto altro orizzonte che un campo ritrovarsi qui, reclusa? A lei piaceva correre, e ora scopre che non sa nemmeno cosa voglia dire nuotare. E mentre il vaporetto ci riporta indietro e le stelle cominciano a esplodere nel cielo, tu avvicini le labbra al mio orecchio destro, un brivido leggero, e mi dici: la vedi quella finestra? La terza da sinistra, mettiamo, è lì che sta, e guarda verso di noi, e qui, su questa imbarcazione che si allontana, c’è sua sorella che va via. E lei la guarda andare, la guarda finché non sparisce. Sì, riesco a vederla, la fronte appoggiata al vetro e gli occhi scuri spalancati. Ora il suo orizzonte è quest’acqua immobile a sud e una striscia di terra dall’altra parte.

Quella che il mondo chiama follia è un’isola. E’ un viaggio concentrico con un’estensione forzata di quarantamila metri quadri. Per uscirne, puoi soltanto scavare. O imparare a nuotare.

finestra sulla laguna