Dall’altra parte della strada -4-

Questo mio pezzo è uscito sul numero di dicembre del giornale di strada Piazza Grande.

Non è da oggi che il mercato immobiliare di Bologna mi appare come una roba aliena e incomprensibile. Quindici anni fa, a 26 anni, avevo deciso che era tempo di andare a vivere da sola e valutai l’opportunità di acquistare un monolocale in centro. Organizzai una serie di visite alle quali mi presentai con la più candida, meravigliosa e ottusa delle ingenuità. Vidi cose che voi umani…no, anche voi le avete viste, le abbiamo viste tutti quanti, noi che un bel giorno abbiamo pensato che invece di buttare via i nostri pochi soldini in un affitto spropositato, forse avremmo fatto meglio a fare un piccolo sforzo in più e garantirci un investimento per il futuro. La nostra ingenuità ha sbattuto il muso -oltre che con la non concessione dei mutui da parte delle banche- contro visioni che mai avremmo potuto immaginare neanche sotto l’effetto di sostanze psicotrope. Seminterrati umidi con grate affacciate sui marciapiedi ad altezza scarpe dei passanti, nonché comode vie di passaggio per pantegane, spacciate per caratteristici pied-a terre, soffitte per raggiungere le quali occorreva scalare chilometri di tetti, graziosi bilocali a più livelli che si rivelavano 12 metri quadri soppalcati dove il letto era un giaciglio ricavato su una struttura di legno con trenta centimetri di aria respirabile. Bagni ciechi. Angoli cottura incavati in nicchie simili alle grotta degli uomini preistorici. La mia verginità immobiliare, anche se messa a dura prova, resisteva. Andò perduta in via definitiva una mattina di inizio primavera: sul groppone della memoria avevo già decine di catapecchie malsane  e non credevo che ormai avrei più potuto trovarmi di fronte a qualcosa in grado di stupirmi. E infatti non fu sopresa. Non fu smarrimento. Non fu confusione. Fu indignazione, disgusto, rabbia incontenibile quella che mi riempì il petto quella mattina in cui entrai nel delizioso e particolare oggetto di via Saragozza. L’appartamento si raggiungeva scalando quattro rampe di scale normali, più una rampa in legno tarlato che conduceva ai tetti. Un corridoio vetrato sul quale si aprivano tre o quattro porticine da nano di Biancaneve. Era anche grazioso, quel corridoio verandato. C’erano piantine grasse fuori dalle porte e la luce era proprio bella, lassù. Il mio cuore si gonfiò di sollievo. Poi, l’agente immobiliare (no, non lo ricordo con esattezza, nella mia testa le loro facce, i loro corpi e il loro genere, si mescolano e si confondono in un'unica entità magmatica e cangiante che come caratteristica principale, e unica a pensarci bene, è l’untuosa impermeabilità all’evidenza dei fatti reali del mondo, l’avversione alla concretezza delle cose così come stanno)…dunque dicevo, l’agente immobiliare spinse la terza porticina da nano e letteralmente mi buttò dentro la mia nuova casa. D’istinto arretrai d’un passo. Ma la creatura immobiliare là dietro premeva e così fui costretta a entrare. Tutto lo spazio (se così si può definirlo), in alto, in basso e di lato, era rivestito di mattonelle bianche e verdi tipo bagno d’autogrill. E la prima immagine che mi passò per la testa, fu quella del un cunicolo dei Sopravvissuti. Per avventurarmi in quei 18 metri quadri fui costretta a chinare la testa e ingobbire le spalle. E dire che sono bassa, pensai, e cercai di consolarmi, con questo pensiero. Vede, diceva la creatura immobiliare con una voce che mi giungeva distorta e piena di echi alieni, lì c’è il bagnetto, lì c’è l’angolino cottura, lì l’armadietto a muro, laggiù il ripostiglino. Tutto quanto, lì dentro, era ‘ino’ e ‘etto’. Come la casettina di Barbie, mi sfuggì dalle labbra. Ma la creatura immobiliare non mi cagò di striscio, tutta presa a mostrarmi la meraviglia delle meraviglie: l’abbaino che dava sui tetti. Venga, venga per di qua. Mi girai su me stessa ed ero già lì, nell’unico punto della scatolina (o scatoletta?) dove si riusciva a mantenersi in posizione semi-eretta. Ci ritrovammo lì, io e la creatura, con le teste spinta fuori dalla finestrella a vasistas e respirare i miasmi che salivano da via Saragozza. Che bella vista, eh? Carponi, uscii dalla graziosa mansarda senza trovare la forza di rispondergli e corsi giù per le quattro rampe più una di scale e lui (o lei? O Esso?) mi inseguì tallonandomi e quando ci ritrovammo sotto il portico, finalmente fuori da quell’incubo escheriano, non riuscii a dirgli altro che una frase, ridicola, inutile, e soprattutto rivolta non si sa bene a chi, forse al dio malvagio di quella mia città cattiva, per parafrasare (più o meno) i Pooh:Vergognatevi! Vergognatevi tutti! Sono passati 15 anni, e questa storia mi è tornata in mente oggi, mentre rientro da una visita a una casa in zona Corticella (una delle poche zone abbordabili per chi oggi, novembre 2010, decida che 18 metri a 180mila euro pur se dentro porta sono francamente improponibili). L’agente immobiliare era entusiasta, della casa che andava a propormi. Un rapporto qualità prezzo imbattibile in una zona graziosissima. E mentre l’aspettavo, lungo una strada che mi si rivelava ora nella sua vera natura: doppia circolazione con passaggio dell’autobus numero 11 dalle 5e 40 di mattina fino all’1 di notte, nelle due direzioni di marcia. Stavo lì a fumare una sigaretta per ingannare l’attesa davanti a un bar ricevitoria che alle 4 del pomeriggio rigurgitava di un gruppo misto tra extracomunitari e locali tutti comunque chiaramente nullafacenti nonché ubriachi e molesti. Di fianco al bar, una rosticceria di tre locali: miasmi di olio fritto si riversavano in strada ogni volta che un cliente entrava o usciva. Poi, la nuova (ma in verità antichissima) Creatura Immobiliare è arrivata. Ha aperto un portoncino e mi ha fatto strada nell’appartamento. Grande era grande, e da una parte, le finestre davano su un dirupo coperto di boscaglia che ruzzolava verso il canale. La Creatura, come mi avesse letto nel pensiero, ha sorriso: fanno la disinfestazione tutti gli anni, per le zanzare tigre. Dall’altra parte, quella dove si trovavano le camere da letto, ci si affacciava dritti sulla strada. Primo piano. E mentre la Creatura mormorava  è davvero silenzioso, tutto considerato, la schiena di un autobus appariva a filo della finestra e il vetro, il pavimento sotto i nostri piedi, i muri un po’ scrostati, tremavano e oscillavano e il rumore si univa baldanzoso a quello di un aereo in decollo. Sono scoppiata a ridere, ho stretto un arto superiore della Creatura e ho ripreso l’autobus. Ormai era l’ora di punta, e da Corticella, per raggiungere il centro storico dove abito e dal quale desidero fuggire per incompatibilità caratteriale, ci ho messo quarantacinque minuti. Il riso si è trasformato in magone.
Pensavo alla mansardina di 15 anni fa e mi chiedevo: cos’è cambiato, in questi 15 anni, in questa città che sfrutta a sangue gli studenti fuorisede e che vuol bene solo alle ricche famiglie possidenti? In fondo, lo fa dal tardo Medioevo: se esistono i portici, per i quali la città è famosa nel mondo, è per conquistarsi stanze in più da poter affittare agli studiosi che da tutta Europa venivano nel famoso Ateneo. La differenza è che ora c’è la Crisi. E non è uno slogan. E la tragedia vera di milioni di italiani con gli stipendi (quando ce li hanno) dimezzati dalla cassa integrazione o comunque dal costo della vita che non è mica diminuito insieme ai conti in banca. La tragedia di milioni di ragazzi che non possono permettersi di uscire dalle case dei genitori e smettere di attingere ai borsellini dei nonni. La tragedia di gente che si indebita per il resto della sua vita per viverla, quella benedetta o maledetta vita, in una deliziosa, caratteristica, graziosissima e particolare topaia.
 
 
Bologna, noi tutti, per questo, ti vogliamo meno bene di quanto meriteresti. Certi giorni, ad essere sinceri, ti detestiamo.


Dall’altra parte della strada -3-

Questo  mio pezzo è uscito sul numero di ottobre di Piazza Grande, giornale di strada di Bologna, consultabile on line qui:

Sono davanti al mare più mare che riesca a immaginare: l’Egeo visto dalle coste di un’isola piccolissima del Dodecaneso, eppure penso a Bologna. Penso alla mia città di pianura, gelida d’inverno e rovente d’estate. Penso ai giorni d’agosto in cui la cappa ti preme addosso e il cielo è un coperchio bianco che ti soffoca. Penso che ogni anno, quando la stagione estiva è alle porte, formulo lo stesso proposito per l’anno successivo: non farmi trovare in città, scappare, rifugiarmi se possibile su uno scoglio davanti al mare, seduta sulla banchina di un porto qualunque a guardare le barche che entrano ed escono, le vele che si tendono e schioccano in un vento che a Bologna non c’è, che non esiste proprio, salvo rari sbuffi primaverili. Perché Bologna, mi viene da pensare, è la città che meno marina in Italia non ce n’è un’altra, distesa com’è in mezzo a una pianura e senza sfogo d’acqua. Penso che potrei vivere a Genova, a Venezia, a Trieste, potrei vivere a Livorno oppure a Pescara, addirittura mi basterebbe Rimini, d’inverno potrei passeggiare per un lungomare deserto e farmi attraversare da folate di vento odorose di alghe, invece di stare all’ombra dei portici senza nessun orizzonte verso il quale riposare lo sguardo.
 
A Bologna, da sempre, e sempre, io rimpiango il mare. Eppure qualcosa non torna, se da una minuscola finestra in via Piella, una sera d’estate non poi così calda, all’improvviso guardi giù e vedi le case specchiarsi in una strada d’acqua nera e capisci che Bologna, un tempo, forse assomigliava un  poco a Venezia. E adesso invece, certi giorni ti viene da pensare che non somiglia neanche più a se stessa. Non è mica facile capirla una volta per tutte, l’anima di una città. Forse perché è fatta di tante anime diverse, che si accoppiano, fanno famiglia, poi magari si allontanano e si separano. Cambiano, le città, e non hanno un cuore solo, sono organismi complicati.
 
In un pomeriggio d’estate che minaccia temporale, con Giampiero, la sua compagna Antonella e il loro figlio Ismaele andiamo a fare un giro dalle parti di casa loro. Attraversata Via della Beverara e una rotonda che immette nella tangenziale svoltiamo lungo il terrapieno di una sopraelevata. Non capisco bene cosa vogliano mostrarmi, in quella orribile terra di nessuno nella quale ci ritrovavamo a camminare e che per una volta mi fa rimpiangere il centro storico. Siamo in una zona che è una via di mezzo tra un quartiere residenziale e uno industriale, un deserto agostano nel quale spiccano branchi di anziani accasciati all’ombra di qualche palazzo, le sedie di plastica in cerchio, i polpacci gonfi allungati sul cemento bollente. Poi, di colpo, svoltato un angolo piombiamo nel passato: piccole case addossate l’una all’altra, un odore di salmastro e un canale che corre da una parte verso la città dall’altra verso la campagna. Il quartiere Navile, a Nord di Bologna, confinante con il comune di Corticella, l’ho sempre considerato fuori dalle mie rotte, anche quando per un paio d’anni anni ho abitato vicino al Centro Lame e mi sarebbe bastata una deviazione minima in direzione opposta a quella che prendevo di solito per andare in centro, per ritrovarmi precisamente qui, in un cuore della mia città che ha smesso di battere tanto tempo fa. Eppure, il canale Navile era la via d’acqua di Bologna. Tutta la città tra il 1100 e il 1200 era stata dotata di una rete idrica artificiale che serviva per le attività industriali (mulini da grano e da seta, conciatura di pelli e tessuti) e questo canale che ora mi scorre sotto gli occhi e che costeggio camminando sul suo argine verde, era fatto per la navigazione fluviale. Via, vento in poppa, da Bologna verso Ferrara e poi su fino a Venezia, e al mare.
Il Parco di Villa Angeletti adesso è un paradiso per le nutrie e per gli uccelli, ma non per gli esseri umani. Qualche ceffo si muove tra gli arbusti con aria sospetta: piccoli spacciatori? Tossici che vengono qui a farsi tanto non c’è nessuno? Qualche solitario in tenuta da jogging e l’ipod nelle orecchie, manco l’ombra di una donna da sola, magari seduta a leggersi un libro, né di bambini che giocano. Eppure è un parco bellissimo, eppure da qui il rumore del traffico non si sente e tutto è verde e gli alberi di sambuco sono pieni di grappoli maturi. E l’acqua del canale gorgoglia. C’è un pezzo di Bologna che sembra un po’ Venezia, un po’ Amsterdaam, un po’ Comacchio. Un pezzo di Bologna che odora di mare e che fa rimpiangere il tempo in cui l’acqua attraversava la città e gli uomini ci scivolavano sopra con le barche per trasportare merci dentro e fuori le mura. Bologna aveva il suo porto, le sue chiuse, le sue barche e i suoi marinai; adesso ha i suoi parcheggi, il suo Sirio, i suoi suv, le sue polveri sottili, e la sua gente chiusa dentro gli abitacoli. Ho letto che è previsto un intervento di recupero in varie fasi di tutte queste aeree verdi che sorgono ai lati del canale Navile, in un progetto generale che vorrebbe restituire ai cittadini una parte di città, così misteriosa e bella, per troppo tempo dimenticata e sepolta dal degrado. Io spero che sia vero, mi piacerebbe poter pensare che vivo in una città d’acqua e smettere di rimpiangere il mare. Quando tornerò a Bologna, andrò a sedermi ogni tanto in quella piccola e verde piazza intitolata ai Marinai d’Italia, davanti a una scultura che raffigura una barca e sognerò cosa avrebbe potuto essere questa città se invece di aprire le porte ai motori si fosse continuato a riempire le sue vie d’acqua.
 
 


Il più grande dei mondi

"Appoggiato al lungo manico del mio falcetto, faccio una pausa durante il lavoro nel frutteto e osservo le montagne intorno e il villaggio sottostante. Mi domando come mai i pensieri delle gente siano arrivati a girare più in fretta del volgere delle stagioni."

Masanobu Fukuoka, La rivoluzione del filo di paglia

PICT0124

La mattina apro il file e non so quale voce incontrerò. Ricomincio da capo ogni giorno e anche se la pagine lentamente si accumulano, non ho la più vaga idea, ancora, di quale forma stia prendendo questa storia che scrivo. Queste storie che scrivo. Perché ci sono due cose che corrono parallele e a seconda dei giorni è l’una oppure l’altra a chiamarmi, come sempre mi accade. A un certo punto arriva il momento della disciplina: mettere tutte le carte in tavola e cercare di decifrare l’arcano, ma ancora non sono lì. Allora apro altri file, ricostruisco attimi misteriosi di vite lontane nel tempo, oppure mi lascio sommergere dalle parole di qualcun altro. Vedo, respiro, vivo e penso con il corpo e la testa e le frasi di un altro scrittore (una scrittrice, in questo particolare caso) e mi fa bene. Tradurre è così: ti allontana da te stesso e ti costringe all’attenzione, alla cura del dettaglio, ti obbliga a trovare un differente ritmo di respirazione, non quello che ti è naturale, ma quello che usa questo altro, -o altra- al quale ti accosti con umiltà e pudore, spesso senza nemmeno domandarti se le cose che scrive, e come le scrive, ti piacciano o meno. Sei al suo servizio e non puoi permetterti di dimenticarlo nemmeno per un istante.
 
Alzo lo sguardo verso gli alberi fuori dalla finestra. Attendo con impazienza il momento in cui le foglie cominceranno a cadere e finalmente la vallata si aprirà davanti a me, un orizzonte più lontano, più largo e azzurro. L’orto certi giorni posso anche dimenticarlo: piove un poco quasi tutti i pomeriggi. I pomodori sono ancora verdi. I baccelli dei fagioli si gonfiano e arrossiscono sulla pianta e zucchine e insalate si moltiplicano senza particolari cure. Gusci d’uova sbriciolati e macerato di aglio e rosmarino per allontanare afidi e lumache. Stop. La gatta mi segue nei miei giri di perlustrazione e affonda le unghie nel terriccio smosso dalle talpe. Qualche giorno fa è passata una lupa sotto le finestre del mio studio. Al primo colpo d'occhio ho pensato (o forse l'ho detto, ché ormai parlo da sola): "ma che cinghiale magro!". Poi lei è passata di nuovo, probabilmente seguiva le tracce dei piccoli di cinghiale, e l'ho vista bene. Era giovane, e affamata. Ho battuto le mani, non so neanche perché visto che la gatta era in casa, e la lupa ha sollevato la testa e mi ha guardato ben bene, poi si è girata e, con tutta la calma del mondo, se n'è andata verso la valle. Lo sguardo più intenso che mi sia capitato in queste ultime settimane: non si dimenticano, gli occhi di un lupo, ed è la seconda volta che li incontro, in pochi mesi.
 
Mi domando se sono io ad essermi un poco allontanata dagli esseri umani ai quali volevo bene e con i quali condividevo molte cose o se è nella natura dei rapporti umani distrarsi, allontanarsi, allentarsi per poi forse ritrovare una traiettoria che avvicina. Questa è la vita che volevo, la vita che voglio e per la quale sono portata. Come per tutte le cose, c'è un prezzo da pagare, ed è la distanza – fisica, ma in certo modo anche spirituale- da alcune persone. Mi ripagano le testarde piccole piante che sbucano dalla terra, mi ripagano le bestie selvatiche, il silenzio, il profumo del bosco e il cielo grande sopra la testa? Credo di sì, però un lampo di sofferenza ogni tanto mi attraversa. Vorrei mostrare a quelli ai quali voglio bene le piccole avventure che si iscrivono sul dorso delle montagne un giorno dopo l’altro e una notte dopo l’altra, tante storie minime che messe insieme fanno il senso di tutto. Vorrei fargli vedere che si può davvero scegliere di vivere in un altro modo: rallentare, diminuire, lavorare uno spazio di terra ridotto, ma più in profondità. Vorrei rovesciare davanti a loro i tesori accumulati in queste settimane: rami rossi di sambuco seccati che sembrano coralli, penne e piume di uccelli, code di lucertola, ghiande, malli di noce e coleotteri con il carapace di oro fuso, grappoli di lucciole accese e l’eco di misteriosi suoni notturni. 
 
Io sono qui. E voi, dove siete?

"Io credo che se uno entra a fondo nell'ambiente che lo circonda immediatamente e nel piccolo mondo di tutti i giorni in cui vive, il più grande dei mondi si rivelerà."

M.F.

 


Dall’altra parte della strada -2-

Questo mio pezzo è uscito nel nuovo numero di Piazza Grande, in vendita in questi giorni per le strade di Bologna, e consultabile on line, qui.

La prima volta che ci sono venuta, da queste parti, facevo la quarta ginnasio e una mia compagna di classe mi aveva invitata a studiare a casa sua. Ho un ricordo confuso di un lunghissimo viaggio in autobus attraverso zone agricole e cantieri, spazi vuoti verdi e marroni e l’apparizione all’orizzonte di una landa desolata sopra la quale come funghi atomici erano esplosi chissà quando palazzi che somigliavano ad astronavi aliene. Da una parte c’era il fiume Reno, dall’altra i tralicci dell’alta tensione e questa edilizia popolare, così diversa da tutto quello che conoscevo: venivo dalla campagna di Budrio e il mio orizzonte erano campi piatti e nebbiosi, e per cinque ore, la mattina di sei giorni alla settimana, i muri incombenti oltre le finestre lunghe e strette del liceo Galvani in via Castiglione, pieno centro storico. Qui, a Santa Viola, quartiere barca-Reno, alla me quattordicenne e digiuna ancora di viaggi e metropoli, sembrava di essere atterrata in un'altra città, un altro Paese, un altro Mondo. E la stessa sensazione in effetti ce l’ho anche oggi, meno straniante però, perché nel frattempo gli spazi vuoti verdi e marroni si sono riempiti: di palazzi, di giardini pubblici. E di gente, che oggi, domenica d’aprile d’elezioni con l’aria di vera primavera (anche non lo sappiamo che una perturbazione infinita ci farà ripiombare nell’inverno per un altro mese di buio e piogge) affolla i cortili delle scuole elementari e medie trasformati in seggi, sfoggiando alternativamente mise d’alta moda e tute sformate; e poi, già che è dovuta uscire per votare, lascia che corpo e polmoni prendano aria, magari un gelato, due passi con il cane e i bambini.  Anche per me è stato un sollievo uscire finalmente dall’asfittico centro storico, tutto ripiegato sui propri intestini rossorosa di portici e  ritrovarsi fuori, con il cielo aperto sopra la testa. Lungo i viali di circonvallazione, al posto delle solite file di suv c’erano scooter e ragazzini in maglietta che filavano verso i colli per andare a stravaccarsi su un prato. Al quartiere Reno-Barca, ogni cortile  e ogni giardino, pubblico o privato, sono fioriti. Forse la domenica non è il giorno giusto per capire i posti: le attività abituali sono sospese, la gente, finalmente libera, se la giornata è bella esce dalle case per andare a fare quello che gli pare e non quel che è costretta a fare. Ci sono meno auto e molte più biciclette e l’atmosfera è respirabile. Allora, forse, il giorno sbagliato è il giorno giusto. Perché è alla domenica che capisci come gli spazi vengono usati dalla gente nel tempo vero, quello che possono finalmente dedicare a se stessi, e dunque tanto più indicativo per comprendere come sia stato progettato e come si sia evoluto veramente un quartiere.
 
In via Nullo Baldini, davanti ai portici del “Treno” -duecentocinquanta metri di cemento bianco e girgio senza soluzione di continuità disegnato dall’architetto Vaccaro e edificato dallo IACP negli anni ’60- c’è un mercatino domenicale fitto così di gente. Ti ci butti in mezzo lasciandoti trascinare dalla folla e guardi i banchetti di pentole, biancheria per la casa, le montagne di calzini a un euro e ascolti le chiacchere della gente. E la vera sorpresa è che l’arabo si mescola al dialetto bolognese. La sorpresa è che un venditore di scarpe da ginnastica cerca di spiegarsi a una donna in niquab e nessuno sembra farci minimamente caso. I cachet azzurrini o violetti delle ‘sdaure’ si mescolano allegramente ai veli integrali, e gomito a gomito, donne di culture lontanissime e teoricamente incompatibili, frugano nei cesti di mutande mentre i mariti fumano e girano la testa di qua e di là, distratti. Al bar, una fauna eterogenea di giovani e meno giovani locali si fanno servire caffè e aperitivi da una coppia di giovanissimi camerieri orientali e i più vecchi si appassionano in discussioni politiche che io, ormai forzata habituè dei bar del centro storico frequentati da studenti universitari credevo perdute per sempre. Chiuse a tripla mandata o trasformate in pizzerie con le cozze di plastica appese ai muri come le antiche sezioni di campagna del Pc o di Rifondazione Comunista. D’altra parte, è qui che pulsa il cuore popolare di Bologna. E’ qui che sono nate le prime fabbriche e industrie bolognesi e dunque le prime cooperative. E’ qui che si sono riversati gli immigrati dal Sud negli anni sessanta e dove vuoi che andassero i nuovi immigrati, che sempre dal Sud vengono anche se è un Sud più lontano?
 
Nei giardinetti davanti al Cimitero cittadino della Certosa, ultima tappa del tour di oggi, fotografi una vecchia signora dalle mani diafane insaccata su una carrozzina spinta da una robusta, bionda e impassibile badante col muso duro e l’ipod conficcato a forza nelle orecchie. Ti immagini che la vecchia signora parli da sola e non si aspetti ormai nessuna risposta dal mondo, figuriamoci da una badante straniera.
Eppure, questa è la città dell’accoglienza. Lo è sempre stata, lo è ancora e sempre lo sarà, dicono.
La più antica università d’Italia, orde di studenti da ogni parte d’Italia e d’Europa. Liberalità e simpatia. I bolognesi, gente ospitale, generosa e aperta.
Sarà. Forse, ci crederai di nuovo davvero quando nei sotterranei umidi e ombrosi della Certosa spunterà una lapide simile a quella che ora stai contemplando con due lacrimuccie che ti pizzicano l’angolo degli occhi: “Il 6 febbraio 1935 spirava nelle braccia del signore ERSILIA VENTURI, di anni 69, fu domestica fedele e onesta per 41 anni presso la nobile Casa Masetti ove dedicò con zelo tutta la sua vita e fu da loro contraccambiata con le più amorose cure.”
Ci sarà un nome come Catarina o Slavenka, o Ileana, e la foto di una donna con gli occhi di ghiaccio che tiene tra le sue mani robuste quella diafana di una vecchia signora bolognese.
 
Fuori, nella luce rosata del tramonto, la gente passa da sola, in coppia o in comitiva. Italiani e stranieri e stran-i-eri-italiani (ché ci sono anche loro e sono tanti). Passano a piedi, in bici, in scooter. Zitti oppure chiacchierando. L’acqua del canale scintilla placida e molti forse si domandano quale sarà l’esito delle elezioni, domani mattina. Io, allargo ancora la domanda, dentro, e mi chiedo quale sarà l’anima di questa città, domani mattina; e poi tra un mese e tra dieci anni. E mi viene da essere languida e fiduciosa – almeno per una volta, almeno per cinque minuti- e da pensare che questa città, con giusto un pelo di sforzo in più da parte dei suoi prossimi governanti e dei suoi cittadini, originari o acquisiti, quegli aggettivi là, tipo “generosa”, “aperta”, “ospitale”, se li merita e se li meriterà ancora. 


Un viaggio dall’altra parte della strada

Sul primo numero della nuova edizione di Piazza Grande, il giornale di strada di Bologna, è uscita la prima puntata di un viaggio dentro la città che io e Carlo Lucarelli faremo nei prossimi dieci mesi, un percorso a testa, una volta per uno.

Piazza Grande numero 163, aprile 2010. 

 Questa è la versione non tagliata del mio pezzo introduttivo.  


Perfino gli uccelli non sono più gli stessi. Gli ouraka arrivarono qui da Buenos Aires trent’anni fa. Questo ve lo dimostra. Le cose cambiano per gli uccelli, proprio come cambiano per noi.”

Bruce Chatwin, In Patagonia
 

Chissà perché ci trasformiamo in viaggiatori solo quando un aereo, una nave, un treno o un qualunque altro mezzo di trasporto ci recapitano (il più velocemente possibile e con il minor sbattimento) a debita distanza da casa nostra. Possibilmente a migliaia di chilometri dal nostro Paese di provenienza. Un posto in cui il paesaggio, l’architettura, le facce, gli odori e i sapori siano abbastanza diversi da quelli cui siamo assuefatti da riuscire  a rianimare almeno un po’ i nostri sensi anestetizzati. Abbiamo bisogno di uno spostamento geografico consistente per ricominciare ad accorgerci del mondo che ci si muove attorno. Per constatare, con un misto di soddisfazione e spavento, di possedere ancora un paio di gambe, di occhi e un naso. Guardiamoci dentro lo specchio della hall del nostro hotel un’ultima volta prima di buttarci là fuori, nell’ignoto. Bardati come muli da soma e trasformati dall’armamentario turistico in Indiana Jones della vacanza -organizzata o meno- nella versione adeguata a longitudini e latitudini: il noi stesso Viaggiatore Tropicale, Polare, Escursionista, Marinaretto. Come tanti piccoli Ken e Barbie di un’ipotetica linea Giramondo. Cappellini improbabili con visiere assurde e scritte talvolta imbarazzanti che mai e poi mai indosseremmo a casa nostra. Pantaloni milletasche e sandali coi calzini. Borse che strabordano di oggetti: coltellini svizzeri del peso di un mammuth, bussole e gps satelittari, salviette igienizzanti, lozioni antizanzare, barrette energetiche. Improvvisamente, in quel giorno benedetto in cui ha inizio la vacanza, scopriamo che il mondo, ignorato fino ad allora in mesi e mesi di percorsi obbligati e ore di flanellosi televisiva, ci interessa. Che la contemplazione di un sasso piantato in mezzo a un’area verde e contrassegnato da una scritta in inglese che dice “Resti del tempio di Esculapio” ci provoca una fibrillazione. E quell’esotica creatura che ci zampetta sopra, merita anch’essa di essere osservata in devoto e religioso silenzio e successivamente riconosciuta sopra una guida e dunque fotografata in molte pose e infine classificata per poter poi una volta tornati a casa mostrare le nostre immagini agli amici e entusiasti sussurrare – o esclamare, a seconda del nostro carattere e modo di esprimere l’entusiasmo: ecco una cornacchia del Peloponneso! D’altra parte, quella tonnellata di guide che ci portiamo appresso, conficcate a forza dentro la borsa multitasche che ci sega una spalla e ci costringe a camminare in diagonale, dovrà pur servire a qualcosa. Così come la mappa, che quasi sempre ha la dimensione di un lenzuolo e che dispieghiamo con attenzione cercando di riportarla alla serica consistenza del suo primo minuto di vita, quando era appena stata partorita dalla sua placenta di plastica. Le nostre facce sono serie e appasionate, come fossimo Cortes alle prese col Nuovo Mondo.

Eppure, si potrebbe essere viaggiatori anche solo attraversando una strada. Il protagonista di Wakefield, uno dei più bei racconti dello scrittore americano Nathaniel Hawthorne, è esattamente questo che fa: attraversa una strada e va vivere, di nascosto da tutti, in un appartamento della casa di fronte a quella nella quale ha vissuto fino a quel giorno con la moglie. Perché lo fa? Molti motivi, non ultimo, vedere la sua vita e dunque se stesso, dal di fuori. Per vedersi, insomma. Cosa che è quasi impossibile fare se non si cambia prospettiva. E farlo non è per niente semplice: spesso il luogo in cui viviamo si trasforma in qualcosa di cui ci serviamo e basta. Se potessimo vedere una mappa dei nostri movimenti, ci accorgeremmo di usare una percentuale ridicola dello spazio che abbiamo a disposizione. I nostri percorsi sono sempre gli stessi, non scantoniamo e non deviamo quasi mai dalle traiettore abituali, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per pigrizia mentale. E giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, la nostra attenzione al luogo nel quale viviamo cala insieme alle diottrie. Può poi capitare un giorno di risvegliarsi all’improvviso e di accorgersi con orrore che attorno a noi tutto è radicalmente cambiato e non abbiamo alcuno strumento per interpretare quel cambiamento. Forse, avremmo fatto meglio ad esplorare i nostri luoghi con maggiore costanza.
 
E’ per questo che abbiamo deciso di provare ad avventurarci per le strade della nostra città, Bologna, come se ci trovassimo dall’altra parte del mondo, in una città sconosciuta di uno Stato nel quale mettiamo piede per la prima volta. E d’altra parte, Bologna è cambiata tantissimo, negli ultimi anni. La nostra città rossa, nostra signora di portici e tortellini, di osterie e sangiovese, cubetti di mortadella e sanpietrini, città dotta e città grassa, città che cambia ogni secondo e che ci ostiniamo a voler descrivere con le parole che già l’hanno descritta centinaia di volte, fino a rendere quelle parole astratte e senza suono. Vogliamo quindi provare a guardare e raccontare la città nella quale abbiamo studiato e ci siamo formati, come esseri umani e come scrittori, la città dalla quale spesso partiamo per andare lontano e poi ritorniamo, quasi fossimo legati a una catena fantasma che qui ci riporta. Ma vogliamo provare a farlo con occhi vergini. Siamo pronti a trasformarci in esploratori della nostra città e vogliamo andare a vedere tutti quei posti che fino ad ora non abbiamo mai neanche considerato, perché erano fuori dalla nostra geografia emozionale o pratica. Dieci percorsi. Uno al mese. La digitale in tasca, una mappa della città, un taccuino per gli appunti e un buon paio di scarpe, come raccomandava Anton Cechov. Alla prossima.