In dolcezza e rispetto reciproci, un comandamento

Una volta, avevo ventiquattro anni, a Londra, ero andata a trovare in zona SouthWark – Elephant and Castle, a casa sua, un ragazzo conosciuto qualche giorno prima per strada. Eravamo fuori da una libreria e lui mi aveva seguita su un autobus. Come ti chiami, da dove vieni, cosa fai nella vita. Parlammo di libri, lui mi disse che gli piaceva leggere, ma a casa sua di libri non ce n’erano mai stati e neanche i soldi per comprarli. Per quello andava nelle librerie, a rubarli. Era carino, aveva i denti sporgenti e indossava un berretto da basket. Cosa fai, gli chiesi, vai in giro a molestare le donne per strada? Vuoi dei soldi? Non mi fidavo per niente, però mi era simpatico. Portavo gli stivali a ventiquattro anni, li porto ancora: stivali al ginocchio, spesso tipo anfibi, stivali da corsa, da fuga, da battaglia, niente scarpe da preda, i tacchi mai, devi sempre poter correre pensavo e penso ancora. Ma quello era un ragazzino di 17 anni, quasi un bambino, e io ne avevo sette di più. Dovevo aver paura di lui? Ci sentimmo un paio di volte al telefono. Poi una sera col bigliettino dell’indirizzo in mano, venivo da Maida Ave, Little Venice, mi ritrovai in un casermone allucinante – Heygate si chiamava, adesso è stato demolito e in parte ristrutturato – le luci degli androni erano mezze fulminate, una gran puzza di piscio, rifiuti dappertutto, gente da nessuna parte: solo i resti dei vizi e le ombre e i fantasmi del giorno appena trascorso. Nell’ascensore c’erano delle spade – siringhe usate, sì – piantate contro le pareti, carta igienica appallottolata e schizzi di vomito da alcool. L’appartamento era a un piano alto, non ricordo il numero. Venne ad aprirmi lui, il ragazzino, Mark si chiamava, e io entrai. In salotto, che era la prima stanza della casa, c’era una gran nebbia da fumo, la tv accesa a tutto volume e davanti alla tv un uomo di mezza età, in tuta e ciabatte, sbragato sul divano, grasso, con un birra in una mano e una sigaretta nell’altra. Non mi guardò neanche, mentre io e il ragazzo – quello è mio padre, è un negro disse, indicandolo senza girarsi, mia madre invece è bianca, non la vedo da dieci anni, non so dove vive, siamo io e lui da soli qui e lui non fa un cazzo tutto il giorno -.  Ebbi paura? No. Avrei dovuto? Ni. Boh. Rimanemmo nella sua stanza fino a mezzanotte e mezza e in una manciata d’ore Mark mi raccontò i suoi pochi anni di sfighe: sussidi, piccoli furti, guai scolastici e con la giustizia, abbandono materno, alcolismo paterno, botte prese e date, rap e poesia, poi io dovevo correre a prendere l’ultima metro e me ne andai da sola nella notte stralunata di una città che conoscevo poco e l’ultimo treno lo presi per un pelo, e non avevo il cellulare nel 1994 e non avevo paura, perché a ventiquattro anni non si dovrebbe avere paura di niente, specie dei ragazzi. Mi è sempre andata bene. Mi sono sempre fidata del mio istinto, con gli uomini, e non mi è mai successo niente di brutto, mi sono sempre accorta prima se uno poteva essere uno stronzo e gli stronzi non mi piacevano e non mi piacciono. Tutto bene a parte una volta, per strada, molti anni prima, da ragazzina, a Monza, dove ero ospite da mia zia per un periodo. Mentre camminavo sentii qualcosa di umido strisciarsi contro il mio avambraccio nudo, era primavera. Dietro una specie di palizzata per i lavori in corso c’era un uomo che sporgeva le sue tumide grazie oscene contro le passanti. Una cosa schifosa, così schifosa che una volta a casa di mia zia mi grattai a sangue il braccio con acqua e sapone e unghie. Una rabbia così feroce ho provato, quella volta: cammino per la strada, sono una ragazzina, non ho ancora mai toccato un uomo, come si permette uno sconosciuto di farmi una cosa così vomitevole? Una scemenza, certo, paragonata a una violenza sessuale vera e propria, ma comunque indimenticabile. Intollerabile, perché poco aveva a che fare con il mio intuito e le mie scelte, questa cosa. Mi era successa e basta. Se fossi stata una ragazza più fragile forse mi avrebbe segnata a vita, ma non lo ero, fragile. E anzi, questo ricordo poi mi ha sempre fatto rizzare le antenne quando sceglievo che strada prendere, da chi accettare un passaggio, quando dare il mio numero di telefono e come muovermi per le strade. Sono stata guidata bene dall’istinto e sono stata molto molto fortunata. Sono stata fortunata quella volta a Heygate. Sono stata fortunata in cento altri posti del mondo dove ho viaggiato da sola, e anche dietro l’angolo di casa, in tutti i posti dove sono uscita di notte, dove ho conosciuto uomini e ci ho parlato, ho dato loro confidenza e a volte ci sono uscita insieme. Nessuna ragazza dovrebbe avere paura. Nessuna ragazza dovrebbe rinunciare a viaggiare, uscire, conoscere, sorridere a uno sconosciuto, magari baciarlo, alla libertà di giocare finché è un gioco e dire no, grazie quando il gioco non le piace più. Ogni volta che invece succede che una ragazza è sfortunata, non si può girare la testa, strumentalizzare l’accaduto o minimizzarlo, ma guardarli bene in faccia, gli stronzi. Che tendenzialmente non hanno colore, razza o fede ma sono, come tutte le teste di cazzo, distribuiti in maniera abbastanza equa ovunque. Non si userebbe l’espressione testa di cazzo, se non volesse dire quel che vuol dire, no? Non ho niente proprio contro l’organo sessuale in questione sia chiaro, ma un certo grado d’istinto predatorio slegato dalla ragionevolezza, negli uomini, mi pare innegabile. MA (un MA grande e pesante come un macigno) è poi l’atteggiamento culturale di una società che lo condanna o lo legittima, quell’istintucolo, e fa crescere giovani uomini stronzi e predatori oppure, al contrario, giovani uomini rispettosi e corretti (come tantissimi ce ne sono). Ed è un lavoro educativo che riguarda tutt*: madri, padri, nonni, zii, amici, maschi, femmine, transgender. Le parole di sdegno pronunciate per politically correctness non bastano quando poi il tuo linguaggio comune e i tuoi gesti quotidiani sono tutti bagnati di sessismo. E noi, intendo le donne, cosa possiamo fare? Nasconderci, fare finta di niente, assoggettarci a un certo filone di mal-pensiero  che ci dice che certe cose, se vogliamo essere sicure che non ci accada niente di male, non dobbiamo farle? Negare che le possibili violenze maschili ci fanno paura? Che anche certi sguardi per strada, certe battute, certe situazioni sul lavoro e nella vita quotidiana sono violente al pari dei gesti eclatanti? Che ci accorgiamo benissimo dei tiranti nascosti che  vogliono prenderci al lazo e cercano di ributtarci in casa, nell’oscurità e nel silenzio che abbiamo abitato per centinaia d’anni e che in gran parte del mondo – spesso anche qui, dietro l’angolo! -abitiamo ancora?
Questi pensieri mi sono venuti riflettendo su ciò che i media hanno riportato di quanto accaduto a Colonia, Germania, il 31 dicembre scorso. (Leggo e sento: 1000 uomini. Di meno, di più? Chi li ha contati? 90 ? 70? 80? 100? 500? denunce per stupro. Violenze e palpeggiamenti, furti, botti sparati senza le cautele del caso.Tutti immigrati/rifugiati? Qualcuno sì qualcuno no, metà e metà? Leggo gli articoli dei maggiori quotidiani europei e vari interventi sul web e mi sembra ci sia molta poca chiarezza e obiettività dei fatti riguardo quanto accaduto in Breslauer Platz. Non entro dunque nel merito della vicenda, che mantiene per me ancora molti punti non chiari, ma divago sul tema, perché qualsiasi cosa sia accaduta, per certo lo scenario da apocalisse che ha spalancato mi fa paura: uomini ubriachi e violenti che si gettano sulle donne senza che le forze dell’ordine siano in grado di intervenire. Scenario che tra l’altro si presta molto bene a strumentalizzazioni politiche e dunque bisogna andarci cauti, capire bene.)
Però. Sono madre di un piccolo figlio maschio di tre anni e mezzo e il mio impegno quotidiano da quando è nato è stato, ed è, quello di insegnargli a rispettare gli esseri umani indipendentemente dal sesso, dall’età, dal colore e dalla condizione sociale. La sola idea di ritrovarmi con un adolescente che tratta le ragazze come gadgedts o come carne a pezzi sul banco del macellaio, mi fa orrore. Ma procedo a tentoni, con mille dubbi perché certo, io la vedo- e vivo – in un certo modo, ma fuori, fuori c’è il mondo e il mondo di oggi è complicato da una pluralità di visioni  che a volte – spesso – poco si armonizzano con la mia.
Ci sono tre scene che mi hanno colpita nello splendido  film di Mike Leigh dedicati agli ultimi venticinque anni di vita del grandissimo pittore William Turner. Siamo nella prima metà dell’Ottocento, a Londra. Nella prima scena c’è Turner (interpretazione gigantesca, e chinghialesca, di Timothy Spall!) che di ritorno da un viaggio nelle Fiandre viene accolto dalla donna di servizio con la quale convive insieme al vecchio padre. La donna, devota e succube di quell’uomo rude, orrendo e sublime, gli si offre silenziosa: due zampe la abbrancano in un gesto inequivocabile di possesso. Nella seconda scena, il rapporto tra i due viene ulteriormente esplicitato. Turner si avvicina alla domestica, che sta cercando un libro nello scaffale, le si spinge contro e le solleva la gonna per un amplesso bestiale che durerà al massimo trenta secondi e terminato il quale l’uomo si strappa via da lei con un grugnito e neanche un grazie, lasciandola lì: insoddisfatta,  usata e buttata. Sola.  Nella terza scena, la donna invece è un’altra, una bis-vedova non più giovane, di animo allegro ed evidentemente ben consapevole delle sue voglie e dei suoi diritti. Quando la bis-vedova bussa alla porta della camera da letto che quello strano affittuario londinese ogni tanto occupa per stare vicino alla vista del mare -uno dei soggetti preferiti di Turner, forse IL preferito – lui esce e i due si ritrovano lì, nell’ingresso, al lume di una lampada e Turner fa quello che ha sempre fatto, l’unica cosa che evidentemente, di fronte a una donna, sa fare: abbrancarla, prendersela con la forza. Ma attenzione, lei a quella forza si ritrae, e per un attimo pensiamo che gli darà un ceffone, lo manderà a quel paese e fine della storia. Invece no, lei lo prende per mano con fermezza, e invece di farsi trascinare nella stanza di lui o lasciarsi prendere lì, su due piedi, lo invita a seguirla nella propria, di stanza. La porta si chiude. Lo spettatore intuisce che in quel momento di nero sospeso c’è da cogliere qualcosa di importante: il potere che una donna ha di fronte al desiderio maschile (quando è condiviso, ovviamente); quello di guidarlo, ingentilirlo, modularlo in accordo con il proprio; con estrema fermezza, se necessario.
Non c’entra niente con i “fatti di Colonia” come ormai vengono definiti ovunque, ma un po’ si, per me comunque c’entra.
Dove c’è la consapevolezza e l’orgoglio di essere ciò che sì è non si ha paura di far valere i propri diritti, a cominciare da quello di non gradire e rigettare una battuta detta da un passante, una richiesta non gradita fatta dal marito, il compagno, un amante o un amico. A cominciare dalla pretesa che chi ci sta intorno comprenda se ci sentiamo limitate, offese, diminuite e stia dalla nostra parte, ma per davvero: senza minimizzare o peggio ridicolizzare le nostre lamentele a riguardo.
Temo che se oggi, nel 2016, avessi ventiquattro anni e dovessi andare a trovare un ragazzino sconosciuto, povero, di colore, in un posto simile ad Heygate mi farei molti più scrupoli che nel 1994 e questa considerazione non mi piace per niente. Che le ragazze di oggi siano meno libere di quanto non lo sia stata io è un’evidenza che fatico ad accettare e che mi fa male. Un evidenza che mi costringe a tirar fuori la testa dalla sabbia, e guardarmi bene attorno per cercare di capire cosa stia succedendo e come possiamo lavorarci su.
Sto ripensando anche, tra le tante cose, a un film che presenterò a breve in una rassegna cinematografica dedicata all’adolescenza: Girlhood, (uscito in Italia col titolo Diamante nero, dalla canzone Black Diamond di Rihanna) della regista francese Céline Sciamma. Una storia che racconta le sfide contemporanee nella costruzione di un’identità femminile. C’è una bellissima scena nel film che ribalta lo stereotipo del maschio in contemplazione dell’oggetto-corpo femminile: la protagonista, – Marieme soprannominata Vic, da Victory -chiede al suo ragazzo di spogliarsi e osserva  il suo corpo maschile teneramente sottomesso alla prepotente curiosità di una femmina. In dolcezza e rispetto reciproci. Le ragazze che ballano in questo video qui sotto  (è un’altra una bella scena del film) non sono delle prede. Sono giovani e belle di per sé, per sé, dentro una stanza senza spettatori: ballano da sole e lo fanno benissimo, con gioia e abbandono. Quando il sorriso di una ragazza smette di essere così fiducioso è anche colpa nostra: di tutt*.

 

 


Io Amo

Andrej Letko
 
17 marzo 1977 – 1 febbraio 2010


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Non te l’ho mai detto che Dimitri, uno dei personaggi del mio romanzo Strada Provinciale Tre, l’avevo costruito rubandoti delle cose. Forse perché la tua storia e la sua erano molto molto diverse, neanche il Paese era lo stesso: la tua città era Bratislava, Repubblica Slovacca, e la sua Kiev, Ucraina. Quasi niente, alla fine, corrispondeva. Però, c’era il tuo modo di muoverti, da puledro bellissimo e sgraziato con le zampe troppo lunghe e quella frenesia di mettersi a correre quando ancora non sa neanche tenersi dritto; c’era il tuo modo di costruire le frasi, la tua vitalità e la tua fretta di mangiare la vita. Il tuo sorriso. Adesso, penso al tuo corpo giovane che dentro la cella frigorifera di un obitorio d’ospedale aspetta di sapere se tornerà a casa, oppure resterà nella città che lo aveva accolto nelle sue strade, gelide d’inverno e bollenti d’estate. Nevica, oggi, e io guardo i fiocchi bianchi fuori dalla finestra e penso che uscendo di casa non avrò mai più la gioia inaspettata di incontrarti da qualche parte e di abbracciarti e di ascoltare con trepidazione le tue novità. Perché io ci speravo davvero, Andrej, ci credevo che la tua energia e i tuoi talenti sarebbero riusciti ad averla vinta sulla strada, sulle sostanze, sull’autodistruzione, sulla sfiga. Eri troppo bello e troppo intelligente, tu, per farti fregare davvero, in via definitiva. E invece. E invece ascolto la tua voce dentro la testa e cerco di ricordare la stretta delle tue braccia l’ultima volta che ti ho visto, che era la fine di ottobre e a Bologna faceva un freddo assurdo, e tu mi hai sollevata da terra e mi hai fatta girare come si fa con i bambini. Anche quest’anno avremmo festeggiato i nostri compleanni a pochi giorni di distanza. Probabilmente ti avrei mandato un sms o una mail per dirti una cazzata tipo pesciolino-fratellino, auguri!

Su uno dei tuoi profili on line, alla dicitura Interessi, avevi scritto così: IO AMO. E mi piace pensare che tu non abbia smesso. Sai cosa faccio, Andrej, me la prendo io, questa frase, questo motto. Un’altra cosa che ti rubo. Anche se conoscendoti un po’ penso che me l’avresti regalata volentieri, se te l’avessi chiesta.

IO AMO.

Quale migliore disposizione si può indossare sopra il cuore per attraversare le strade del mondo?

Ps Però Andrej, vaffanculo, sono ancora qui che aspetto il nuovo template per questo blog che mi avevi promesso due anni fa.


Pietre

sasso1"Eppure chissà
là dove qualcuno resiste senza speranza
è forse là che inizia
la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo."

Yannis Ritsos


E’ così che passate l’ora d’aria che vi concedono sul lungomare di Partheni, al campo dei deportati politici, con l’orizzonte azzurro chiuso allo sguardo dalla sagoma verdegrigia delle colline: gli occhi fissi a terra e la schiena piegata, a caccia di sassi dalle forme strane sui quali far poi scorrere grafite, inchiostro, lacrime e sogni. Tu sei un poeta, lui un avvocato. Entrambi vi accanite a volervi uomini liberi in un mondo che odia la libertà. Una baionetta puntata alle costole, fili spinati a separarvi dagli uomini giusti, un mare intero a dividervi dalle vostre vite. Voi lo sapete che inchiostro, lacrime e sogni sanno essere più affilati, esplosivi e durevoli di qualsiasi arma da taglio o fucile.

Ps. A Leros, piccola isola del Dodecaneso affacciata verso la costa turca, durante il periodo della dittatura militare (1967-1974) nelle caserme abbandonate dagli italiani che occuparono l’isola fino al 1947, vennero deportati moltissimi dissidenti, tra questi, il poeta Yannis Ritsos. Alcuni dei sassi da lui dipinti nel periodo di detenzione sono esposti al museo folklorico di Leros, nella Torre di Beleni ad Agia Marina.


Tuvixeddu, la necropoli sepolta dai palazzi

Questo pezzo, in una versione leggermente abbreviata, è uscito su l’Unità di martedì 7 ottobre, accompagnato da due miei scatti.


Tuvixeddu, la necropoli sepolta dai palazzi

Simona Vinci

casetta rossaDall’alto del colle di Tuvixeddu, la casa con il tetto rosso è quanto di più incongruo si possa immaginare: Cappuccetto Rosso sperduta nel bosco, un cespuglio di bacche in mezzo a una selva di alberi colossali o una vecchietta traballante, piccola piccola tra giovani giganti. La macchia verde del giardino soppravvive e là sotto ci s’immagina l’ombra e un nugolo di gatti e pasciuti cani bastardi che riposano stesi sul selciato del cortile. Davanti c’è anche una palma. E oltre la palma, un casermone azzurro e giallino a sei piani lungo come un Eurostar. Nella casetta con il tetto rosso, Francesca ci ha abitato per quarantasei anni, dal giorno del suo matrimonio fino alla fine della sua vita, con il marito, il figlio e i loro amati animali raccolti per strada: cani e gatti, un corvo, per un po’ anche una pecora azzoppata e una maialina destinata a diventare salume. L’artista Andrea Nurcis, il figlio di Francesca, oggi è qui con me, a Cagliari, sul colle di Tuvixeddu -in questi giorni al centro di una vero e proprio braccio di ferro tra chi tenta di tutelarlo e chi vuole continuare a costruirci sopra- a passeggiare avanti e indietro nello spazio e nel tempo.
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Il dolore degli altri- Tbilisi, Georgia

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Grembiuli da casa, pantofole di pezza, foulards legati sulla testa, un bastone posato accanto, espressioni attonite o disperate. Le mani di queste due anziane sedute sulla soglia di una casa, a Tbilisi. Mani grandi, segnate dal lavoro, dall’artrite e dalla vecchiaia. Mani che hanno lavorato tutta la vita, mai ferme, sempre a fare, cucire, cucinare, pulire, tirar fuori patate dai campi e bambini dalle pance, mani più da schiaffi che da carezze si direbbe a vederle così, ma chissà poi che dolcezza, invece. Mani che adesso, di fronte alla sciagura, non sanno più che cosa fare e restano lì, ingombranti che non si sa dove metterle, impossibili da nascondere, goffe a stringere un gomito, a tormentare il viso, a chiudere forte la bocca per non mettersi a urlare, di dolore o di rabbia.

ansa136000641008205819_bigCosa c’è in queste immagini (dalla galleria fotografica Georgia, la tragedia degli sfollati, Repubblica) che mi urta tanto? Che urtica, scortica, fa male? Oltre le ovvie pena ed empatia nei confronti di queste persone: anziani, donne e bambini trascinati fuori dalle loro case, fuori dalle loro vite. Dietro questa prima pelle, ce n’è un’altra e poi un’altra ancora. Strati di motivazioni, di emozioni, di domande che prudono come scabbia. Ad esempio: a cosa servono queste foto? (A cosa servono tutte le fotografie di guerra)? A dire ancora una volta che la guerra, qualsiasi guerra è brutta? A farci sentire buoni, capaci di pietas? Servono a fomentare l’odio per un nemico? A nutrire il nostro voyeurismo? Sfoglio quel saggio spiazzante di Susan Sontag che continuo a rileggere e nel quale non trovo nessuna risposta, solo altre domande. Chi sono i noi a cui queste immagini scioccanti sono indirizzate? Quel noi dovrebbe includere non soltanto i simpatizzanti di una piccola nazione o di un popolo privo di Stato che lotta per la propria vita, ma anche il gruppo ben più nutrito di chi si preoccupa, non foss’altro che a parole, di una qualche terribile guerra in corso in un altro paese. Le fotografie sono un mezzo per rendere "reali" ( o più reali) situazioni che i privilegiati, o quanti semplicemente non corrono alcun pericolo, preferirebbero forse ignorare.

Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri                 

E poi penso ai reporters, alla faccia tosta – Coraggio? Fede nell’utilità proprio lavoro?- che ci vuole a scendere per le strade di una città messa a ferro e fuoco e puntare l’obiettivo sui volti, sulla disperazione altrui, per portare a casa un servizio.

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PS. Queste tre fotografie sono tratte dalla galleria di Repubblica e non sono firmate, è indicata solo l’agenzia: Ansa per le prime due, Reuters per la terza.

PS2 Dietro l’Ossezia, lo scontro tra USA e Russia, di Carlo Benedetti, qui.